AI MAGAZINE Anno 6 Numero 57 aprile-maggio 2012
Omaggio a uno dei miei maestri
Negli anni ’80 del secolo scorso ebbi il privilegio di partecipare a due seminari di pittura a numero chiuso tenuti da Georg Baselitz (pseudonimo di Hans-Georg Rem) il primo a Monaco di Baviera e il secondo a Berlino.
I rapporti che ho sempre avuto con l’arte contemporanea tedesca affondano negli anni ’70, quando, io poco più che ventenne, partecipai ad alcune mostre in Germania, all’interno di case occupate, in magazzini del porto di Amburgo espropriati dalla furia anarchica, in vecchie fabbriche in disuso, assieme ai Neue Wilden, i Nuovi Selvaggi, agli Heftige Malerei, i Pittori Violenti, e a volte anche a fianco di quelli che sarebbero diventati tra i massimi esponenti dell’arte tedesca e mondiale della seconda metà del ’900… Kiefer, Richter, Penck, Middendorf, Immendorff, Fetting, Lupertz e, appunto, Baselitz.
Ogni opera di Georg Baselitz, che annovero tra i miei maestri, è una proposta ideale, un dono di Dio, una conditio sine qua non, una rivelazione, come egli ama dire. Infatti il senso del sacro lo vive e, all’interno della lunga tradizione del creare, nonché dell’espressionismo e del neoespressionismo nordico, Baselitz ha sempre cercato il confronto con la storia dell'arte e con lo spirituale insito in essa, per renderli alla contemporaneità, in un modo che può solo essere descritto come eroico, perché la sua pittura e la sua scultura sono, consapevolmente, sempre andati contro le moda, pur rimanendo nella modernità.
Sebbene, come ho detto, il suo lavoro sia oltremodo radicato nella cultura tedesca, Baselitz è riuscito a dialogare con l’arte di tutto il pianeta e anche se a volte è visto come una sorta di figura altamente “conservatrice”, per tecniche usate e teorizzazioni, la capacità provocatoria contenutistica che vive il suo fare si pone sempre all’avanguardia.
Ultimamente, come ha scritto l’amico Bruno Corà, dissoltosi nella sua opera ogni spessore corporeo, sono fantasmi quelli che affiorano da un tempo che fu “titanico”, così che le sue grandi tele risultano quali miraggi, quali visioni, pervasi da un sentimento di malinconica e drammatica inattualità.
Nato nel 1938 e cresciuto nella austerità della Germania Est comunista, secondo di quattro figli, egli abitava nei pressi della cittadina di Grossbaselitz, dove si recava a scuola e dalla quale prese il suo nome d’arte. Solo nel 1957, dopo un periodo di studio a Berlino Est, si iscrive alla Staatliche Hochschule für Bildende Künste di Berlino Ovest, prendendo la residenza in detta città nel 1958, poco prima della costruzione del muro.
I pittori che guardò, quando iniziò ad affrontare la tela, furono Louis Ferdinand von Rayski, Jackson Pollock e Philip Guston, mentre, in letteratura, venne colpito dalla teorizzazioni estreme di Antonin Artaud e da quel suo “Teatro della crudeltà” che tanto fu caro anche al nostro Carmelo Bene. Il culmine del periodo “artaudiano” si ebbe con la serie di opere Die Grosse Nacht im Eimer (La Grande Notte Down the Drain, del 1963) che raffigurava, in varie posture, un bambino intento a masturbarsi. I quadri vennero presentati nel contesto della sua prima mostra personale, momento inaugurale di una nuova galleria berlinese di proprietà di Michael Werner e Benjamin Katz, due mercanti e intellettuali di valore. L’evento provocò a tal punto indignazione e scandalo tra i visitatori che il ciclo Die Grosse Nacht im Eimer fu confiscato e Baselitz, Werner e Katz vennero denunciati per oscenità e quindi multati.
Ma quello che ha caratterizzato, negli anni, la ricerca di Baselitz è stato l’esporre certe sue opere capovolte. Se alcuni hanno visto quelle figure a testa in giù quale un pur semplice espediente per colpire provocatoriamente, altri, tra cui il sottoscritto, sostengono, invece, che tale shock estetico derivi da un’elaborazione di ordine filosofico e percettivo frutto di un’estrema originalità. Ad esempio in Fingermalerei - Adler (Finger Painting - Aquila) dei primissimi anni ’70, l’uccello, nella sua inversione, a fronte di un cielo pittorico blu, è carico di ambiguità e va a simboleggiare la caduta dell’orgoglio tedesco a seguito della sconfitta subita nella Seconda Guerra Mondiale.
Molto ci sarebbe da “narrare” sul “narratore” Baselitz, oggi presente con le sue tele e le sue sculture nei massimi musei del mondo, comunque mi limiterò a dire che tutta la sua carriera, a parte le componenti distruttive anarchiche che l’hanno contraddistinta, possiede in sé un altissimo valore terapeutico, perché, il maestro, è sempre andato ad affrontare, senza alcun tabù (e questo al pari di Kiefer), quei temi oltremodo scottanti che riguardano il nostro recente passato europeo.
Dagli anni ’80 la sua arte è diventata indubbiamente più trasparente, quel tanto elegiaca, però senza perdere il senso della storia e della grandezza che l’hanno contraddistinta.
Da quando, guardando indietro nel tempo, ho conosciuto Baselitz e la sua arte, sempre ho pensato che si potesse creare un ponte elettivo tra lui e Picasso; un parallelo che infine risulta sorprendente. Nei loro primi anni creativi, entrambi gli artisti hanno dipinto opere che provenivano da una loro necessità interiore, la cui intensità ha spesso creato inquietudine agli stessi, così come il guardare l’opera altrui, e il mutuarla, l’assimilarla, per scopi propri, è rientrato nel loro essere in arte. Quindi il super lavoro e il non avere assistenti, cioè l’affrontare l’opera, il crearla, sempre e comunque con le proprie mani. Poi, elaborato il ciò che fu e il ciò che era a loro temporalmente vicino, giungere al graffio personale, a uno stile proprio, a un “cavalcare” l’opera per darle altra forma e altri contenuti, non più soggetti ad alcuna influenza, affondando, così, e sempre più, in uno stile loro, unico, riconoscibilissimo, potente, esclusivo, sempre in evoluzione.