boîte Anno 3 Numero 9 primavera 2012
Voglio riportare due episodi che ho vissuto con Philip Corner, in occasione di una mostra che curai a Perugia nel 1993 (1) dove l’artista americano esponeva un lavoro costituito da un fornelletto elettrico, un tegamino e delle uova crude; il visitatore poteva prendere un uovo, romperlo e, dopo averlo fritto sul tegamino, mangiarselo. Corner, assai gentilmente, mi propose di provare ma, visto il sudiciume del tegamino, sicuramente non pulito dopo tante mostre e da tanto tempo, rifiutai, adducendo un mio alto tasso di colesterolo! Ma c’è di più. Gli operai, quando smontarono la mostra, buttarono via quel tegamino sporco, pensando che qualche intruso avesse lì bivaccato e non che quell’oggetto semplice fosse un’opera d’arte! Ci fu un grande sconcerto tra i dirigenti della Provincia, ente organizzatore, che scaricarono sul curatore, cioè su di me, l’ingrato compito di avvisare l’artista della perdita del lavoro. Un po’ intimidito, chiamai Philip al telefono raccontandogli l’accaduto e, aspettandomi una sfuriata e la richiesta di una cifra molto alta per l’assicurazione, con una gran risata mi disse: “Giorgio, vai alla Standa e compra un fornelletto elettrico e un tegamino; è tutto!”.
Ecco, questo è un grande esempio di “arte politica” e di vera “arte concettuale”: Corner, con questa frase, supera il “feticismo delle merci” – per usare un concetto marxiano – e ribadisce, nei fatti e non a parole, che nell’arte concettuale è l’idea l’opera, non tanto la sua realizzazione, la quale ultima è sempre un semplice oggetto, anche banale e futile.
Allo stesso tempo, avendo chiesto a Corner se, quando ripeteva dopo più di venti/trenta anni la performance in cui originariamente, dopo una breve suonata, si rompeva il pianoforte, allora di marca eccellente, di nuovo distruggesse lo strumento musicale: la risposta fu negativa, motivata dal fatto che erano mutate le condizioni e che quindi usava un vecchio pianoforte. Già destinato alla rottamazione. Questo perché, negli anni della rottura – politica, sociale, culturale –, la rottura (mi scuso per il bisticcio) doveva essere autentica, dell’originale, dato che la contestazione era totale e senza riserve, mentre nella ripetizione (storica), mutata la situazione, in vero più soggettiva che oggettiva, sarebbe stato uno spreco inutile la distruzione di uno Steinway.
In seguito, insieme ad Enrico Mascelloni, ho curato una grande mostra del movimento (2), dove mi sono ritrovato con Corner ma questa volta suonò il corno con grande perizia e mi risparmiò le uova! Voglio però, qui, fare una confessione: questa è, forse, l’unica mostra di cui mi sono pentito, non perché non fosse ben articolata e ricca di opere, ma perché, riflettendo bene, ed anche grazie ai discorsi e agli atteggiamenti di Corner, mi sono convinto che Fluxus sia un movimento che non si può “mostrificare” né “museificare” pena lo stravolgimento e la violenza proprio sui suoi valori e sulla sua essenza; si può solo “storicizzare”, cioè scriverne e mostrarne i documenti fotografici, ed anche raccontare. Oppure ci si può immergere nel grande flusso delle idee e dei comportamenti che da Fluxus si possono trarre, pur nella consapevolezza che nello scorrere del fiume non ci si può immergere due volte e che la storia non si ripete mai, se non come farsa.
Note
1.Si tratta di Presenze. Artisti stranieri oggi in Italia, Padiglione Neri, ex-Ospedale psichiatrico, Perugia 1995.
2.Promuovere l’alluvione. Fluxus nella sua Epoca 1958-1978, Centro per l’arte contemporanea, Umbertide (PG) 1997; Opera/Paese, Roma, 1998; Casina del Boschetto in Villa Comunale, Napoli 2000, catalogo Adriano Parise 1997.
Giorgio Bonomi (1946) è storico e critico d'arte contemporanea. Di formazione filosofica, ha svolto significativi studi su A. Gramsci per poi dedicarsi all'arte con studi sulla pittura analitica e la curatela di numerose mostre. E' direttore di "Titolo". La sua boîte custodisce semi disseminati.