Juliet Anno 34 Numero 169 ottobre-novembre 2014
#NDR #NotaDelRedattore: la 14. Mostra Internazionale di Architettura è aperta al pubblico fino a domenica 23 novembre ai Giardini e all’Arsenale di Venezia. Curata da Rem Koolhaas, vincitore del Pritzker Prize nel 2000, del Premio Imperial nel 2003 e del Leone d’oro alla carriera nel 2010, prende il nome di Foundamentals ed è una mostra costituita da tre componenti principali:
(1) Absorbing Modernity: 1914-2014 che accomuna le Partecipazioni Nazionali in una riflessione unitaria sui percorsi di modernizzazione,
(2) Monditalia all'Arsenale dove viene analizzata la scena italiana (solo un numero, in Italia ci sono 147mila architetti, quattro volte più degli Stati Uniti) e
(3) Elements of Architecture al Padiglione Centrale una mostra di sculture e installazioni sugli elementi utilizzati dall'architetto, ma anche come una sorta rappresentazione di una disciplina esplosa.
Il catalogo, stampato dall’editore Marsilio, è proposto in edizione ufficiale (576 pagine) e ridotta/tascabile a cui si aggiungono i quindici i volumetti dedicati agli Elements of Architecture elaborati insieme al GSD di Harvard.
Tutto questo mentre il #MOSE (mastodontico e discusso progetto ingegneristico atto a evitare i disastri provocati dall’acqua alta a Venezia) è lievitato da 1,8 a 5 miliardi.
GP: Rem Koolhaas, dialogando con Kenneth Frampton(1 al Berlage Institute, inizia l’intervista dicendo che da giornalista è importante porre le domande cruciali alla fine e iniziare con domande innocenti, mentre in architettura è l’opposto. Iniziamo con qualcosa che può essere sia innocente sia cruciale: quale è il ruolo dell’architettura, ma soprattutto della ricerca, che emerge da questa Biennale?
MG: Qualcosa a proposito di quanto scaltro sia stato Rem ad ostacolare l’esibizione dei progetti recenti dei suoi concorrenti? Come ha spostato il focus dal progetto alla ricerca in architettura? Perché non stiamo parlando né della ricerca meta-progettuale o propedeutica al progetto, né della ricerca trans-architettonica alla quale ci ha abituati AMO (lo studio di Rem Koolhaas dedicato alla ricerca, distinto da OMA, che è dedicato al progetto), ma di ricerca-ricerca, ricerca scientifica, quella senza fine, per intenderci (Popper). Per non parlare del fatto che si è preso pure la libertà - fatto raro, forse unico in Biennale - di indicare un unico eccitante tema per tutti i padiglioni (Absorbing Modernity 1914-2014).
GP: Molto bene, ma lasciamo le polemiche e le ipotesi di complotto ai critici/blogger romani, ok? Questa Biennale ha proprio il merito di aver disvelato l’unicità della ricerca in architettura. Una ricerca peculiare, che varia molto nelle forme, nei modi e nell’importanza. E ad ogni modo, al di là dei personalismi, questa Biennale ha fatto emergere il portato sociale della professione, il lato #social. Un esempio: la presenza del ministro della cultura francese era in programma e, mentre inaugurava il padiglione, spiegava quanto il paese crede nella ricerca. Franceschini è arrivato all’ultimo minuto, non annunciato, e non ricordo nulla del suo discorso che abbia attirato la mia attenzione.
MG: L’arresto del sindaco di Venezia nella notte ha rubato la scena all’architettura italiana. Stefano Boeri in conferenza stampa si è ritrovato a parlare di Orsoni, della Maddalena e di infiltrazioni malavitose all’Expo 2015, chiudendo con un imbarazzante, più che imbarazzato “this is Italy”.
GP: A proposito di imbarazzo mi vengono in mente altre due scenette quasi comiche: l’annuncio semi-disperato di Julien De Smedt sui #social che cercava un posto dove dormire visto che quello che aveva trovato si era rivelato una truffa e la faccia di Vladimir, un caro amico che ha curato il padiglione della Macedonia, che sembrava uscito dal cartone animato delle fatiche di Asterix e Obelix a forza di rimbalzare contro la burocrazia della manifestazione. La città di Venezia, la Biennale, forse addirittura il nostro paese, non escono bene da questa vetrina internazionale...
MG: Nonostante l’ottima Monditalia, alle Corderie, dove ha trionfato la Tabula Peutingeriana proposta da Marco Biraghi.
GP: Un lavoro raffinato e di qualità, l'asse di un percorso paratattico, come è molto interessante l’installazione di Luka Skansi The Remnants of the Miracle. Ma tra gli interventi più interessanti ci sono sicuramente anche i padiglioni belga e statunitense e poi quello giapponese, macedone e di Taipei, ma su questi ultimi tre, trattandosi di persone che conosco ed amici, sono di parte.
MG: Su quello belga sono d’accordo. Strepitosi. Quasi una critica alla mostra Fundamentals di Koolhaas, che, in confronto, sembrava il SAIE (famosa fiera per l’edilizia, ndr). Mentre Fundamentals, infatti, in linea con la capacità progettuale di Koolhaas, al quale è riconosciuta tra l’altro la capacità il merito di nobilitare sistemi standard ed economici (Moneo), espone una rassegna intelligente di dettagli architettonici standardizzati e storici, i belgi, usando solamente un piccolo profilo metallico scatolato sagomato e verniciato di bianco a segnare una porta, variazioni dell’orditura delle piastrelle in gres sale e pepe (facili da pulire), diverse tonalità di boiacca, saliscendi del controsoffitto a quadrotti variato in rapporto alla direzione della luce (riguardo al quale gli rimprovero l’uso di una struttura ad hoc composta da profili metallici a “L” e “T” rovescio e non di pendini standard da catalogo), la disposizione del mobilio bianco impiallacciato pvc con maniglie in pvc bianche antinfortunistiche, lavabo e rubinetteria da retrobottega, conformavano lo spazio vuoto, lasciando a intendere che qualcuno si era occupato dell’organizzazione di quello spazio e ribadendo l’assoluta necessità che qualcuno si occupi della organizzazione dello spazio, ribaltando definitivamente la questione dei fondamentali, a chiedersi se i fondamentali dell’architettura riguardino l’organizzazione dello spazio più che il saper costruire. Il padiglione che, oltretutto, ha dribblato meglio l’eccitante tema unico.
GP: Agli antipodi ma non per qualità, il padiglione USA, che ha saputo declinare brillantemente il tema. Avevo sentito Matteo (Ghidoni, Head of the "Department of Radical Realism" del padiglione USA che espone il progetto "Ground Floor Crises") il giorno prima e mi ero già convinto dell’idea che il padiglione sarebbe potuto essere una vetrina/laboratorio di produzione culturale. Insieme all’MIT hanno assemblato un catalogo di mille edifici realizzati da architetti registrati negli USA su cui lavorare durante tutta la durata della Biennale. Non si esibiscono disegni o render: è un ufficio di ricerca dal vero che affronta venticinque temi in venticinque settimane. Tra l’altro mi è piaciuto molto che lui come gli altri cinque partners sono stati scelti per concorso, mica per chiamata diretta...
MG: Parlando di cataloghi al padiglione giapponese, tra le altre cose, si possono acquistare i blueprints delle più famose architetture nazionali, accuratamente selezionate per l’esposizione A Century of Modern Architecture in Blueprint – un feticcio non da poco. L’architettura giapponese ricompare poi al padiglione macedone. Anche i macedoni, oltre ad aver fatto un buon lavoro di ricerca, hanno dato prova di saperlo presentare.
GP: Sarà perché nelle contraddizioni del progetto di Kenzo Tange c’è la concretizzazione di un modo di fare ricerca, ma il padiglione macedone ha giocato l’asso concentrandosi sul caso più potente di ricerca in architettura. La storia la conosciamo tutti: il terremoto del 1963, il concorso internazionale per ricostruirla e il progetto metabolista a scala territoriale di Kenzo Tange. Però vederla stratificata in una analogia archeologica che sopra la griglia misura gli oggetti mentre sotto evidenzia gli esempi del patrimonio moderno della città esprime tutto il suo fascino e la sua drammaticità.
MG: Mi chiedo se i loro vicini albanesi ("Potential Monuments of Unrealised Futures", Jonida Turani e Stefano Rabolli Pansera), di padiglione oltre che geografici, abbiano fatto bene a ignorare le seppur flebili presenze moderne sul loro territorio, per intraprendere una riflessione sulle dinamiche socio-culturali che derivano proprio dalla mancata realizzazione degli aneliti della modernità. Il risultato è che la ricerca si evolve in due progetti artistici. Interessante il lavoro di Edi Hila che trasfigura in pittura le forme delle recentissimi e banali architetture spontanee, quasi a dimostrare come il vuoto lasciato dalla mancata realizzazione della modernità - un vuoto formale oltre che di pianificazione - si presti a essere manipolato e lasci spazio a un certo entusiasmo, anche se parzialmente inconsapevole.
GP: Un approccio simile a quello del padiglione di Taipei. Jimenez (Lai, fondatore di Bureau Spectacular, ex OMA, ndr) ha fatto un lavoro molto interessante sulla scala, come tema tipico del modernismo, ma riletto in chiave assolutamente ironica. Mobili troppo grandi per essere tali ma non ancora architetture. Anche questo un intervento principalmente artistico, tant’è vero che le sue installazioni e i suoi disegni passano dal Moma al Guggenheim.
MG: Chi per poco non ha fatto bene sono strati gli austriaci ("Plenum: Places of Power", Christian Kühn e Harald Trapp) che hanno presentato circa 200 plastici in scala 1:500 replica di parlamenti nazionali. L’intento è quello di indagare le forme di auto-rappresentazione del potere democratico. Purtroppo però, non si riesce ad andare oltre al raffronto dei volumi: questa difficoltà di restituzione di significato sembra quasi condividere la tesi del pensiero antagonista secondo la quale la democrazia è fisiologicamente condannata a rimanere una scatola vuota.
GP: Però le conferenze che hanno organizzato sono di altissima qualità, quindi nel complesso è allo stesso livello degli altri. Cambiando discorso Arjo Klamer, economista tra i fondatori dell’Economia Culturale, per spiegarla inizia sempre chiedendo ai presenti quale è la cosa che ha più valore nella loro vita. Ne ho seguite parecchie e mi ha confermato che mai nessun architetto ha risposto “l’architettura”. Qualche artista invece sì. Direi che questa Biennale conferma la regola. Ma di cosa parlano gli addetti ai lavori?
MG: Small talk... chi c’è, chi non c’è... chi accompagna chi... degli after-parties...
GP: Nel frattempo il padiglione della Serbia lancia una mostra chiamata “made in Serbia” dove inserisce edifici fatti da architetti croati in Kosovo. Sei stato tu a farmi notare la biblioteca di Pristina!
MG: Esatto, e la Sala delle Assemblee. A proposito di chi non ha problemi con le scatole vuote, ma con le scatole piene, ideologicamente riempite, intendo. Un po’ come i russi che hanno dato spazio al progetto Archipelago Tours – Russi around the world, che è tanto straordinario e meritorio nell’intenzione di proteggere il patrimonio moderno dell’architettura comunista, quanto spericolato da coniare la categoria della architettura russa, quasi a dimostrare che senza l’egida del nazionalismo e dell’ideologia sarà impossibile preservare il patrimonio del mondo. Ho chiesto alla hostess di definire “l’architettura russa” e di spiegarmi perché non comunista: questa mi ha risposto che ai fini della loro catalogazione è sufficiente che l’architetto sia stato russo.
GP: E al padiglione del Kosovo si parlava appunto dell’uso dell’architettura come strumento di violenza culturale. Peccato che a nessuno sembri interessare questo argomento... tutti troppo presi dalle tartine.
MG: Peccato che non ci sia molta voglia di dibattere, ma mi dispiace di più che, alla fine, quando esci da questa Biennale, non sia come con Next (8. Mostra Internazionale di Architettura, 2002, di Deyan Sudjic): non ti viene voglia di prendere in mano la matita e progettare.
GP: Però qui ti viene voglia di metterti a fare ricerca.
Note
1 Quintal, Becky. “The Berlage Archive: Rem Koolhaas + Kenneth Frampton (1998)” 26 Feb 2014. ArchDaily. Accessed 30 Jul 2014.
gabriele, architetto, laurea con lode, master, Ph.D., ha lavorato con Architekten cie ad Amsterdam, OBR a genova e Om ARem Koolhaas, prima a Rotterdam e poi a Pechino. Attualmente vive e lavora a trieste. (www.gp-a.it).
marco, direzione artistica di Juliet, socio fondatore di mimexity, membro di impact Hub trieste. Di professione ingegnere.