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Virus (1994 - 1998) Anno 1998 Numero 4 sett-ott-nov



Fear and loathing in Las Vegas di Terry Gilliam

Gianni Canova

di Terry Gilliam



Mutation
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Jhonny Depp e Benicio del Toro photo by Peter Mountain

Due ore di sballo. Visivo, emotivo, percettivo, nervoso. Con la macchina da presa che salta, cade, sbanda, slitta, rotola, carambola. E con lo sguardo che va in altalena dentro immagini deformi, fra grandangoli da vertigine e prospettive liquefatte. Cinema da trip, come trip: ci voleva un cineasta irrispettoso e molto seventies come Terry Gilliam per ricordare a tutti l'arsenale allucinogeno di cui il cinema dispone e per allestire una "dimostrazione" efficacissima di deragliamento visual-sensoriale. Il suo Fear and Loathing in Las Vegas (Paura e
disgusto a Las Vegas) a Cannes non è piaciuto: il pubblico del "festival" - così compito, così perbene - non ha gradito l'estetica dello sballo e della paranoia con cui l'ex-Monty Python ha
inzaccherato lo schermo del Palais. Fischi, rifiuti, cori di "buuuh". Perfino gli austeri critici di Libération (ex-sovversivi ormai trasformati in gendarmi del gusto) hanno arricciato il naso e,
impugnata la penna rossa, hanno bocciato senza pietà. Diffidare: di chi boccia e di chi arriccia.
Soprattutto di fronte a un film come Fear and Loathing in Las vegas: che è un tourbillon psichedelico sotto acido. E un manifesto di orgogliosa indipendenza dai canoni estetici (ma
anche politici e psichici) dominanti. Tratto dal romanzo generazionale di Hunter S. Thompson, il film narra il viaggio a Las Vegas di un giornalista estremista e del suo grasso avvocato Dr. Gonzo. A bordo di una decappottabile scarlatta imbottita di droga, i due fuggono dal volto "normale" dell'America con l'obiettivo di mettere a soqquadro il mondo.
"Sono i primi anni '70 - spiega Gilliam in conferenza stampa - è un criminale come Richard
Nixon è appena entrato alla Casa Bianca. La gente con una passione politica si sente a pezzi. E il film inizia proprio da lì". Appunto: quando un sogno muore, i duri ricominciano a sognare.
Infilandosi nell'aria torrida del deserto, a tutto gas verso l'atmosfera elettrica della città più finta del mondo. Johnny Depp e Benicio Del Toro, i due protagonisti, sembrano una coppia di epilettici: semicalvo e elettrizzato, Depp sgavazza con i suoi occhiali giallo-rosa e un bocchino con sigaretta pendula in bocca, mentre Benicio Del Toro, ingrassato di venti chili, deambula fradicio di alcool e di droga, accompagnandosi con una minorenne picchiatella che riempie il suo tempo dipingendo ritratti-clone di Barbra Streisand.
Giunti a Las Vegas con la scusa di seguire una corsa di motocross nel deserto per la rivista Sport Illustrated, i due compari si infilano in un tunnel acido acido, tutto colori squillanti, luci alla mescalina e incubi che planano come pipistrelli in picchiata sul loro cranio e sulla loro auto. Così la suite dell'albergo in cui stazionano (con una nota-spese che non verrà mai pagata) si trasforma in un'anticamera dell'inferno: e tra pavimenti di moquette che si liquefa, facce che diventano maschere grottesche e scorie putrescenti che galleggiano un pò ovunque, i due celebrano ghignando l'inno alla rivolta "hippie", mentre Terry Gilliam (coautore anche della sceneggiatura assieme al punk Alex Cox di Sid & Nancy) scrive uno dei più bei omaggi cinematografici alla cultura (chimica, ottica, acustica e sonora) degli anni Settanta. Mescolando la radicalità di L'Esercito delle 12 scimmie con la visualità delirante di Brazil e con gli slanci immaginifici di Le Avventure del barone di Munchausen, ma se possibile con una libertà e un'intensità ancor più forti, e energiche, e elettrizzanti. E con una colonna sonora tutta rigorosamente "d'epoca", che sa trasformare ogni tentazione di "nostalgia" in un impulso a
proiettare quei ritmi e quegli accordi nel futuro.
Così, i diversi gradi degli effetti di uno spinello descritti nel film dai suoi protagonisti (hip, cool, super) finiscono per descrivere alla perfezione la tonalità emotiva dello stesso film: che si inerpica su su verso le porte in cui la coscienza si allarga, lo sguardo si fa penetrante e il cinema - liberatosi dai festival e dagli accademici sciovinisti di Libération -
finalmente corre, salta, ruzzola e respira.