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Flash Art Italia (1999 - 2001) Anno 32 Numero 218 ottobre novembre 1999



La pittura sotto esame

Francesco Bonami e Judith Nesbitt

Sulla necessità e l'attualità della pittura



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John Currin, Nadine Gordimer, 1997 © John Currin

Glenn Brown, Towards an International Socialism, After Chris Foss, 1997

Margherita Manzelli, Stilnox, 1998

Cosa farsene della pittura? È questa la domanda implicita che soggiace alla recente retrospettiva di Jackson Pollock al Museum of Modern Art di New York e alla Tate di Londra. La mostra si
concentra sulla crisi di Pollock, sull'impossibilità di rispondere a quella domanda, che a prima vista l'artista sembrava aver risolto con il semplice ricorso al gesto. Ma assalire la tela con il gesto significa solo posporre il problema della pittura.
Mettendosi al centro del dipinto, non più come un messaggero ma come vero e proprio soggetto dell'opera, Pollock si è precluso l'accesso ad altre possibilità: si è rinchiuso nel dipinto, senza lasciarsi alcuna via di fuga. Superando la soglia del dipinto, Pollock ha distrutto lo spazio mitico che separa la tela dall'artista: ha dissolto il desiderio di possesso che quello spazio evoca e crea.
Con il suo gesto Pollock irrompe metaforicamente in Las Meninas di Velázquez, distruggendo quella sala di specchi che per tre secoli è stata identificata con la finzione della pittura: ne sconvolge la struttura e le convenzioni narrative. Paradossalmente il gesto rivoluzionario di Pollock spinge la pittura nel vicolo cieco dell'iconoclastia. Forse pentitosi della posizione in cui quel gesto l'aveva costretto, Pollock ha drammatizzato questo senso di reclusione nei suoi ultimi lavori, cercando di riaggiornare la tecnica del dripping alla luce di un disperato ritorno alla figurazione e alla sua passione giovanile per Picasso. In questo senso la retrospettiva di Pollock rappresenta l'epifania della forza e della debolezza della pittura nella seconda metà del nostro secolo: "Uno dei più grandi dilemmi del Ventesimo secolo" secondo Benjamin Buchloh, risiede proprio nell'"apparente conflitto, o antagonismo, tra la funzione rappresentativa della pittura e la sua natura autoriflessiva". Questo dilemma è ancora irrisolto: la pittura continua a sollevare dubbi e fraintendimenti, soprattutto nella nostra società sottoposta a molteplici tensioni e informazioni che offrono alla mano e all'occhio infinite possibilità. Ma appunto in questo panorama la pittura continua a essere una possibilità. Come ha osservato Gerhard Richter nella già citata intervista con Buchloh: "Un dipinto è una possibilità importante, una possibilità tra le tante soluzioni che ciascuno può adottare. Nel peggiore dei casi un dipinto si riduce a una semplice offerta consegnata a chiunque sia interessato". Un dipinto è un invito a esplorare lo spazio della finzione, che intrappola gli osservatori in una dimensione privilegiata e dalla quale non si può fuggire. Questi due spazi limitrofi - lo spazio della pittura e quello dello spettatore - sono parzialmente sovrapponibili, ma non intercambiabili. A turno, l'artista e lo spettatore osservano lo spazio del dipinto, che non smette mai di cambiare e mutare nel contenuto, nella forma, nell'aspetto e nella propria identità. La pittura è sopravvissuta alle rivoluzioni estetiche degli ultimi quattro decenni proprio grazie alla capacità di rinnovare perennemente quel senso di separazione, quella distanza critica che ciascuno spettatore prova al cospetto della tela dipinta.
La retrospettiva di Pollock non è l'unico motivo che ci spinge a mettere ancora una volta la pittura sotto esame.
Certamente conta anche un diffuso e rinnovato interesse che si avverte tra molti artisti e che ha incontrato la risposta entusiasta del mercato.
È evidente che non stiamo assistendo a una miracolosa resurrezione della pittura, come accadde negli anni Ottanta, né vogliamo costruire nuovi altari. Si tratta semplicemente di riconoscere che la pittura, invece di scomparire, è sempre più al centro dell'attenzione di artisti che avrebbero benissimo potuto indirizzare le proprie energie altrove. Nonostante l'invasione dei nuovi media, gli artisti si dedicano ancora alla buona vecchia pratica della pittura; appendono ancora le loro tele ai muri, consegnandole allo sguardo degli estranei.
In una conferenza tenuta nel 1978, Philip Guston riprende una citazione di Franz Kline che descrive l'esperienza della pittura "come le mani infilate in un materasso".
"Secondo la mia esperienza" dice Guston, "un dipinto non è fatto di colori e pittura. Non so cosa sia un dipinto, né cosa susciti il desiderio di dipingere. Forse sono le cose, i pensieri, i ricordi le sensazioni, che non hanno nulla a che fare con la pittura in sé... Il dipinto non è la superficie, ma il piano che vi è immaginato. È il piano che si muove nella mente. Non esiste affatto fisicamente. È un'illusione, una magia: ciò che vedi non è ciò che vedi".
Guston si sofferma anche sulle modalità di funzionamento dei dipinti: "Un dipinto potrebbe benissimo dire: 'Cosa vuoi da me? Sono solo un dipinto.
Lasciami in pace'. Purtroppo non posso smettere le mie abitudini speculative... Dovrò quindi immaginare la pittura come una sorta di specchio che riflette perfettamente le forme? Ma allora questo specchio rifletterà anche i cambiamenti, o meglio: la promessa di un cambiamento... Dobbiamo mantenere sempre la condizione del cambiamento - in altre parole, si tratta di sovvertire l'intollerabile finitezza delle cose.
Altrimenti ci si consegna al museo delle cere, al comico e al ridicolo - una sorta di morte fittizia. Per rifiutare questo stato, si è spinti alla creazione di ciò che non si è mai fatto, di ciò che non si è mai visto fare. Ciò che non si sa ancora come fare".
Invenzione o atrofia, rivendica Guston. Mettere la pittura sotto esame significa cercare lo spirito dell'invenzione e dell'improvvisazione, significa rifiutare fermamente di consegnare la pittura al museo delle cere della storia dell'arte.
Richter, un pittore che con il suo lavoro e le sue idee ha influenzato profondamente gli artisti più giovani, ha descritto perfettamente il suo atteggiamento "pionieristico" nei confronti della pittura. Le idee di Richter riecheggiano quelle di Guston e funzionano quasi da decalogo per i pittori di oggi: "Quando dipingo un quadro (...) non so che aspetto avrà, né dove voglio arrivare, cosa posso fare, a quale fine. Perciò dipingere è uno sforzo disperato, alla cieca, come se qualcuno fosse gettato in un ambiente completamente alieno senza alcun mezzo di sostentamento - come se quel qualcuno avesse a disposizione un insieme di strumenti, di materiali e di capacità e fosse assalito dal desiderio di costruire qualcosa di significativo e utile, qualcosa che non è una casa o una sedia, qualcosa che non può essere nominato. Ed ecco allora che comincia a costruire nella vaga speranza di fare la cosa giusta. L'esperienza e l'attività forse condurranno a qualcosa di giusto e significativo".
Un bottegaio che durante il fine settimana dipinge per rilassarsi crea un oggetto che chiunque riconoscerebbe come un'opera d'arte, indipendentemente dalla sua qualità e dal suo contenuto.
La pittura su tela viene immediatamente identificata come "arte". Quando guardiamo i dipinti del nostro bottegaio, non ci chiediamo se sia o meno "arte", ma solo se è arte buona o cattiva. Il medium della pittura non ha bisogno di un messaggio per vedersi trasformato in un prodotto artistico.
Nella tradizione occidentale, la pittura è l'archetipo dell'arte e come tale gode di particolari privilegi e pregiudizi. Sotto il peso di questi concetti la pittura è implosa, un collasso drammatico nel quale Pollock ha interpretato il ruolo di pioniere.
Cosa resta della pittura dopo questo collasso? Qual è la sua funzione? Nel momento in cui la televisione non può più sostenere il ruolo per la quale è stata creata e, invece di mostrare in tempo reale lo svolgimento della storia, finisce col trasformare la realtà in una forma astratta, rendendo perfettamente intercambiabile il bombardamento di Belgrado e quello di Baghdad, la pittura può davvero aspirare ad affrontare il presente mantenendo la propria integrità?
Molti artisti affrontano questo problema senza rinnegare il proprio legame con la tela, immergendosi ancora più a fondo nella sintassi della pittura. Per loro la sfida consiste nel rielaborare il messaggio senza sacrificare il mezzo. I confini e le convenzioni vengono rispettati, ma, all'interno di questi confini, gli artisti sperimentano nuove narrazioni che non si risolvono semplicemente in gesti di distruzione. Il problema quindi non consiste nel dire addio alla pittura, con un gesto improvviso e irruente, quanto di portare a termine le richieste che la pittura ci impone in questo preciso momento, ricorrendo a modi e stili che sono contraddittori, ambigui, individualisti eppure aperti, carichi di curiosità e aspettative.
Negli anni Sessanta e Settanta la pittura ha spesso rivelato una natura apertamente polemica: i pittori riconoscevano la necessità del contenuto, inserendolo nell'involucro tradizionale della pittura.
Quanto di tutto ciò è sopravvissuto fino a oggi? E quell'aspetto polemico è ancora vivo? I giovani artisti utilizzano la pittura come uno strumento polemico o stanno ancora elaborando il lutto per la scomparsa dell'archetipo, quello stesso archetipo che se ne sta tranquillamente sul cavalletto del pittore della domenica? O, ancora, i pittori stanno vagliando le possibilità di dar vita a un nuovo archetipo, col quale studiare il mondo, come quello specchio trasparente attraverso il quale Alberti studiava il proprio universo, che di lì a poco sarebbe stato identificato con l'Occidente? La nuova generazione di pittori risponderà al nuovo fenomeno mondiale di Windows, la nostra versione aggiornata della finestra sul mondo? Apriranno nuove finestre che mettano in discussione l'idea di rappresentazione, delimitando il territorio nel quale la pittura si incontra con tutto ciò che pittura non è?
La pittura oggi riflette la posizione, perennemente in movimento, dell'individuo ritratto nel momento del collasso della narrazione occidentale, che ci aveva abituato a un solo mondo, una visione unica, un solo artista, un unico stile di pittura. La pittura riflette questo prolungato stato di crisi, in un'età di isolamento collettivo e comunicazione cablata. La pittura lavora su un sapere collettivo, una specie di senso comune che conferma ciò che già conosciamo e al contempo ci sorprende ogni volta. L'idea della pittura continua a sollevare dubbi e certezze.
In un momento caratterizzato dalla densità (dovuta sia all'esplosione della popolazione, sia al flusso dell'informazione), lo spazio rarefatto della pittura non sembra soddisfare alcun bisogno sociale. Eppure la gente ritorna a guardare i dipinti, li riprende in esame - perché?
Il problema in realtà non consiste nel trovare una risposta, quanto piuttosto nell'articolare una serie di domande che diano forma sia all'obsolescenza della tecnica pittorica sia alla sua irrinunciabile utilità, che sopravvive all'era del digitale e del globale.
Perché milioni di persone si accalcano all'ingresso dei musei in occasione delle mostre di Matisse, Picasso, Monet e Van Gogh? Non basta accennare all'arte come entertainment per giustificare quella passione immediata e scottante che si instaura tra l'artista del mese e il pubblico sempre più numeroso che affolla i musei.
Forse in una stagione di incertezze inseguiamo il mito rassicurante dell'artista come eroe e genio, come direbbe qualche esperto di marketing. Ma, dopo tutto, la pittura non è pur sempre il gesto eroico di un individuo messo a confronto con il vuoto? Qualsiasi pittore rivive, di fronte all'opera di un grande artista, il momento in cui il pennello si avvicina alla tela, segnando la distanza che ci separa dalla vita quotidiana. E soprattutto, nell'epoca delle consegne a domicilio e del fallimento dei sistemi, l'idea di uno spazio chiuso - lo spazio della pittura - ci offre la speranza della sopravvivenza. Che si guardi al dipinto di un pittore della domenica, o all'ultima promessa dei giovani talenti, non si potrà dare una risposta definitiva alla necessità della pittura. Ma questa insoddisfazione scorre parallela al flusso di speranze e desideri che scaturiscono ogni volta in cui guardiamo un dipinto, forse alla ricerca di un'occasione per riesaminare noi stessi, il nostro riflesso, la nostra versione miniaturizzata e privata di Las Meninas. Richter: "Un dipinto, e quindi un modello. E se ripenso alla sua interpretazione dei dipinti di Mondrian come modelli per una nuova società, mi viene spontaneo rileggere le mie astrazioni come parabole, immagini di una possibile forma di relazione sociale che descriverei in questi termini: avvicinare, in modo vivo e praticabile, gli elementi più diversi e contraddittori, con la più grande libertà possibile. Non il Paradiso". Questo modello della differenza e della contraddizione non è una via di fuga dalla pittura, quanto una via nella pittura. Se la pittura di Velázquez instaurava un nuovo paradigma della relazione che intercorre tra artista e spettatore, artista e soggetto, artista e medium, tracciando una complessa coreografia di coordinate spaziali, a noi non è più concesso di conquistare il Paradiso, ma solo un'immagine viva e praticabile della pittura di oggi.

(Traduzione dall'inglese di Massimiliano Gioni)

Il testo originale di Examining Picture accompagna la mostra omonima alla Whitechapel di Londra e al Museum of Contemporary Art di Chicago (maggio-giugno 1999; luglio-settembre 1999). Questa traduzione è una versione ridotta, in collaborazione con gli autori, del testo in catalogo.

Francesco Bonami è curatore presso il Museum of Contemporary Art di Chicago.
Judith Nesbitt è direttrice della Whitechapel di Londra.