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Art e Dossier (2003 - 2005) Anno 16 Numero 165 marzo 2001



Il pioniere del modernismo

Alberta Gnugnoli



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Alfred Stieglitz, Dalla finestra dello Shelton Hotel, Ovest (1931), Washington, National Gallery

Alfred Stieglitz, Ritratto di Georgia O'Keeffe (1918), Washington, National Gallery

Charles Demuth, Il mio Egitto (1927), New York, Whitney Museum

La mostra Modern Art and America: Alfred Steiglitz and his New York Galleries, alla National Gallery di Washington fino al 22 aprile 2001, celebra il grande fotografo e gallerista americano, promotore di una radicale rifondazione della cultura figurativa del suo paese nella prima metà del Novecento.

"Quando dovrò essere giudicato penso che lo sarò per le mie fotografie e per come ho condotto una serie di interventi correlati in forma di mostre per quarant'anni", scrisse Alfred Stieglitz (1864-1946), il fotografo, gallerista, profeta del modernismo americano. E la National Gallery of Art di Washington oggi lo celebra con una mostra attesa ed esaustiva che con centonovanta opere di artisti europei e americani testimonia l'inesausta, coerente, onesta fede nell'ideale di un visionario: rifondare la società americana sostituendo ai suoi valori materialistici altri, più immateriali, dell'arte e della cultura.

LA LEVATRICE DI MILLE IDEE

Una delle individualità più ricche nella storia della fotografia per l'originale contemperamento di interessi scientifici e artistici, Stieglitz, figlio di ricchi immigrati tedeschi di New York, nel 1890, al suo rientro dalla Germania - dove ha compiuto studi di ingegneria meccanica e si è appassionato alla fotografia pittorialista -, reagisce alla desolazione culturale che lo circonda con un attacco all'establishment fotografico americano fondando nel 1902, sull'esempio delle Secessioni di Monaco e di Vienna, la Photo-Secession. Radicale, giovane, elitaria, vi aderiscono i più influenti fotografi artistici americani (Edward Steichen, Clarence White, Frank Eugene), ma il suo carattere, intenzionalmente vago, mira in realtà non solo a imporre la fotografia come arte ma anche a farne il territorio fertile di incontro e di confronto di altre espressioni artistiche (scultura, pittura, disegno) per stimolare quel potenziale di idee senza il quale non si fonda una cultura. Per dare forza e preminenza a quel potenziale nel 1903 Stieglitz dota la Photo-Secession di un organo di espressione, la rivista "Camera Work" - di insostituibile influenza nel mondo artistico e fotografico -, che dirige ed edita, e nel 1905 di uno spazio espositivo, le Little Galleries, tre piccole stanze al numero 291 della Fifth Avenue, dove sapientemente orchestra un programma alternativo e stimolante di mostre di fotografi europei e americani e di artisti modernisti europei che non hanno mai esposto in America (Picasso, Matisse, Braque, Cézanne, Picabia). I quindici anni di attività della 291 (nome con cui la galleria diventa nota; 1905-1917) nel flusso internazionale di idee, opere, personalità, eventi, faranno di Stieglitz - la cui comprensione dell'arte moderna non era stata immediata, anche se in continua rapida evoluzione - l'artista, la levatrice di mille idee, la forza spirituale che intimamente aspirava a essere per far nascere un'arte autenticamente americana. In modo provocatorio ma insieme sofisticato, Stieglitz presenta le opere nude, disadorne, senza cornice e sotto vetro, perché si accenda un dialogo creativo, intimo e diretto, fra l'artista che le ha prodotte e colui che aspira a goderne, senza finalità commerciali, perché l'arte, secondo Stieglitz, "non è una merce, ha bisogno di spazio, non di proprietari".
Con mostre scioccanti per la disturbante negazione delle convenzionali nozioni di bellezza - come quella dei nudi femminili esplicitamente erotici di Rodin (1908) e la prima esposizione nel mondo delle sculture diMatisse (1912) - la 291 ha portato New York quasi al passo con Parigi nel livello di comprensione della nuova arte. Al maturo Stieglitz, come ai giovani artisti americani che gravitavano attorno alla sua orbita e alla 291, le immagini elusive, evocative, atmosferiche della Photo-Secession apparvero improvvisamente affettate, artefatte, alla luce delle linee di vibrante sensualità dei nudi di Matisse e di Rodin, delle sollecitazioni plastiche e spaziali dei paesaggi di Cézanne. E la svolta non si fece attendere. Quando nel 1913 un evento sensazionale come l'Armory Show, una colossale mostra di più di mille opere di artisti americani ed europei contemporanei, da cui tuttavia rimase esclusa la fotografia, costringe Stieglitz a rilanciare la sfida modernista della 291, il gallerista presenta due mostre omologhe di fotografia e di pittura, e una dell'astrattista francese Picabia, che confermano New York e i suoi grattacieli come il laboratorio cruciale per la sperimentazione d'avanguardia. Le quattordici fotografie di Stieglitz (tra cui The City of Ambition) e i sedici acquerelli del giovane americano Paul Marin (tra cui la serie del Woolworth Building) visualizzano in linee grafiche ed esuberanti lo slancio vitale di una città che è già il futuro in atto, come avrebbe proclamato Duchamp approdandovi due anni più tardi.
Accusato di aver indotto soltanto una servile imitazione dei modelli europei in una società come quella americana che ha saputo prendere le distanze dall'Europa con aggressiva autonomia in ogni campo eccetto quello dell'arte e della cultura, Stieglitz imprime al programma della 291 un radicale cambiamento, virando verso le fonti primitive della stessa arte di Picasso e di altri modernisti. È del 1914 una straordinaria mostra sulla scultura africana rituale, la prima nel mondo per il fatto di essere presentata come arte e non come reperto etnografico. Ma con un approccio all'arte che è più emozionale che concettuale, Stieglitz si dissocia dall'opinione di Picabia - che lo ha brillantemente ritratto come una macchina fotografica - e di altri modernisti secondo i quali solo ispirandosi alla macchina l'arte del XX secolo, e in particolare quella americana, può trovare la sua cifra più originale, perché la sua formazione culturale idealistico-simbolista della fine del XIX secolo gli fa sentire la macchina come un oggetto troppo "spiritualmente" orbato.
Con la partecipazione degli Stati Uniti alla prima guerra mondiale cessa l'attività della 291, ma Stieglitz, fiducioso nello spirito creativo nazionale opportunamente da lui stimolato e guidato, nell'ultima stagione della 291, il 1916-1917, presenta tre giovani artisti americani: Marsden Hartley, Paul Strand e Georgia O'Keeffe, che impongono un drammatico cambiamento alla fotografia e all'arte americane per il successivo decennio. Restava un interrogativo che era anche una sfida: avrebbe saputo l'America offrire le condizioni per far maturare quel potenziale?

I FIGLI D'ARTE

Nel 1916 Marsden Hartley, reduce da un lungo soggiorno a Berlino, espone alla 291 i suoi dipinti appunto "berlinesi", che sono la più complessa e incisiva risposta americana alla nuova arte europea, in particolare all'espressionismo tedesco. In un'astrazione e amalgama di decorazioni e insegne militari le tele di Hartley sono una rappresentazione audace e vistosa del militarismo germanico ma anche un tributo alla memoria di un intimo amico caduto in guerra, come Ritratto di un ufficiale tedesco, a figura intera, che pur nella dematerializzazione della forma e frammentazione della figura esalta il corpo e le virtù dell'ufficiale simboleggiate dalla bandiera e dalla croce di ferro.
Ma se la speranza di Stieglitz che finanziava i soggiorni in Europa dei suoi "children of art" era che si affermassero in patria con soggetti autenticamente americani, l'incontro con il giovane fotografo newyorkese Paul Strand è la scoperta dell'artista di genio che, liberatosi della lezione pittorialista, si applica all'esplorazione diretta dell'ambiente urbano per imprigionarne il movimento in un disegno incisivo e formale eppure straordinariamente espressivo della sua energia, transitorietà, precarietà in acuto contrasto con la fisica solidità degli edifici. Come l'irresistibile Wall Street del 1915, la cui impressionante evidenza rende questa immagine ancora oggi emblematica di una civiltà.
Se Strand era l'artista razionale, "un'intelligenza applicata alle cose", come lo definiva Stieglitz, Georgia O'Keeffe era l'artista donna intuitiva, intensamente soggettiva, emersa dal cuore profondo del grande paese, il Midwest, il cui lavoro astratto, quasi ermetico, ancora pesantemente indebitato con il simbolismo, sarà profondamente influenzato dalla fotografia di Strand e di Stieglitz. Quando nel 1918 Stieglitz e la O'Keeffe vanno a vivere insieme (lui cinquantaquattro anni, lei trentuno), avviluppati l'uno nell'arte dell'altro, per Stieglitz che durante i quindici anni della 291 era stato più gallerista ed editore che fotografo, il rapporto quasi esclusivo, profondamente emozionale con la O'Keeffe si traduce in un nuovo stimolo estetico e intellettuale che rende la sua fotografia più intimamente espressiva e sperimentale, nel senso che le sue immagini, come osservò acutamente la stessa O'Keeffe, diventano dei "self-portrait", degli autoritratti. Anche i ritratti che scatta alla O'Keeffe - più di trecento in quasi vent'anni -, al suo corpo nudo, al suo volto, alle sue stupende mani, sono filtrati dalla lezione degli artisti che sono passati dalla 291. A sua volta la O'Keeffe incorpora gli elementi della visione fotografica nella sua nuova arte, saldamente ancorata alla realtà oggettiva, come la compressione dello spazio che enfatizza ogni piano dell'immagine e il "close-up" fortemente ravvicinato che impartisce un senso di monumentalità iconica agli oggetti ordinari, come nelle "still-life" di fiori e di piante che la O'Keeffe espone alla Intimate Gallery di Stieglitz.
Ora che il miracolo si è compiuto, che un gruppo di promettenti talenti è emerso, il ruolo e l'impegno di Stieglitz sono profondamente cambiati, come annuncia il titolo della mostra da lui organizzata nel 1925 alle Anderson Galleries: Alfred Stieglitz presenta sette artisti americani (Hartley, Marin, Strand, O'Keeffe, Stieglitz, Demuth e Dove). Perché se anche gli americani che amano l'arte moderna stentano ancora a riconoscerla nei propri connazionali cui preferiscono come più autorevoli gli equivalenti europei, tutte le risorse spirituali ed economiche di Stieglitz, fino alla sua morte nel 1946, saranno devolute a sostenere, promuovere i sette americani, nella convinzione che un gruppo compatto di artisti più che un singolo artista isolato può diventare rappresentativo di un'arte. Così il pioniere del dialogo cosmopolita delle arti diventa il critico di parte, il magnetico incantatore di un pubblico che deve convincere, conquistare, e a Stieglitz non mancano la cultura, l'acume critico e visivo, l'abilità dialettica.

UNA GALLERIA INTIMA

Ma non gli manca soprattutto la fede nei suoi sette figli per i quali organizza mostre monografiche dal 1925 al 1929 in quella Intimate Gallery, in realtà una sola stanza, l'"artist's room", dedicata allo studio intimo, serio e consapevole di una ristretta comunità di artisti da parte di un pubblico partecipe, interessato e colto, non di una massa che decreta una moda. Privo del contributo del governo o di istituzioni artistiche, prestando la sua opera senza alcun compenso, nonostante la precaria situazione economica, per quasi vent'anni Stieglitz finanzia, incoraggia, protegge gli artisti del gruppo nell'approdo difficile, tormentato alla maturità dell'arte, tra cedimenti, fallimenti, devastanti esperienze come quella di Hartley costretto a distruggere un centinaio di opere perché non poteva pagarsi un magazzino. O l'isolamento di Charles Demuth, confinato dal diabete in una cittadina industriale della Pennsylvania, che in una lettera-testamento a Stieglitz ricorderà "come è orribile lavorare nella desolazione di questa nostra terra di liberi, ma è qui che la mia arte deve radicarsi". Per tutti c'è sempre la salvezza sulla piccola barca inaffondabile della Intimate Gallery, o più tardi dell'American Place, anche quando il mutamento dell'ambiente circostante indotto dalla Depressione e dalla conseguente politicizzazione della comunità artistica farà apparire il ruolo e la missione di Stieglitz datate, ironicamente antiamericane per il rifiuto da parte di Stieglitz di una militanza sociale e ideologica. Meno attivo, il cuore malato, per la prima volta Stieglitz non contrattacca, più interessato a riflettere sul suo passato attraverso conversazioni e interviste. Dalla finestra dell'American Place, al diciassettesimo piano di un edificio di uffici, alta e isolata sul caos della metropoli, o dalla sua stanza allo Shelton Hotel, Stieglitz scatta alcune immagini eccezionali del panorama urbano, affatto didascaliche come quelle del 1913, ma liricamente intime come Dalla finestra dello Shelton Hotel, Ovest (1931) in cui l'opposizione netta tra luce e ombra che si riflette sui grattacieli a favore dell'ombra, un'ombra densa, invadente e senza forma, è stata interiorizzata come opposizione di vita e morte da cui ora è invaso più insistentemente.
Anche gli artisti del suo gruppo, dopo aver superato l'esuberante sperimentazione degli anni Venti, si ripiegano interiormente, tesi verso un'arte matura, organica e poetica, tangibile ed emotiva: le loro forme diventano più nette, le composizioni di una potente frontalità, i colori saturi e puri. Le ciminiere industriali di Lancaster che Demuth investe nel suo stile disadorno e rarefatto di una atemporalità associata all'architettura dell'antico Egitto (My Egypt); i grattacieli di Stieglitz eternamente cangianti nella luce brillante; il sole che sorge fra gli alberi visto dalla piccola casa di Long Island, organico e geometrico, in Quella cosa rossa di Dove, hanno trasformato il paesaggio americano e le sue icone in oggetti di dinamica bellezza, di serena contemplazione, anche di venerazione. A questa sublimazione del loro tempo, del loro paese, del loro luogo erano approdate finalmente l'arte e la cultura che Stieglitz aveva nutrito per quattro decadi.