NEUE GALLERIE

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Indice :

1 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

2 LA GIORNATA PARTE ALL’INSEGNA DEL BUONGUSTO

3 NEUE GALLERIE

4 …and …and …and (& others)

5 …and …and …and (& others) II

6 21.7.12

7 WE'RE UGLY, BUT WE HAVE THE MUSIC

8 DAY AFTER

9 SANTONI A CONFRONTO


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Accendersi una sigaretta con un pacchetto di fiammiferi Marlboro, gentilmente offerti dalla multinazionale dei tabacchi, al bancone del bar, è uno di quei piccoli piaceri, come un buon whisky servito di mattina presto in letto, che raramente ci si trova a soddisfare.
E poco importa se non è whisky ma Jegermaister quello che ci servono - perché al Mundo, Sunshinse Bar & Kitchen di fronte alla Neue Gallerie, non sanno preparare un Old Fashioned -, la musica è Civil War dei Guns'n'Roses, regalo di Susan Hiller che, al Mundo, ha installato uno dei due jukebox che compongono la sua opera.
L'altro è dentro la Neue, in una sala bianca i cui muri sono tappezzati dai testi delle 100 Songs for 100 Days, creando una sorta di pattern omogeneo fatto di font.
Vi sono due panche per sedersi, degli auricolari per isolarsi momentaneamente dal mondo. Inoltre, sono a disposizione vari libri con la tracklist, i testi delle canzoni tradotte in inglese, e una serie di stampe bianco nero e rosso, molto fight da powa style.
Tra le altre canzoni, l'immancabile (anche no) Get up, stand up dell'immancabile (ma anche no) Bob Marley, Clampdown dei Clash, Chimes of Freedom, ed è un piacere incontrare the boss Springsteen, As long as the grass shall grow, Johnny man-in-black Cash.
Mentre sono lì seduto a riprendere fiato, nell'aria vanno Marvin Gale e poi i Sex Pistols.
E' una dOCUMENTA che riflette o commemora le esperienze di rivolta pregresse che a fatica stiamo metabolizzando?
Il lavoro di Geoffrey Farmer, "Leaves of grass", aiuta forse a inquadrare meglio i termini della questione.
Geoffrey Farmer potrà anche essere additato come il Re dei Paraculo, ma tutta la retorica pelosa di quelli che criticano quest'opera è segnale di una mancanza di consapevolezza rispetto alle chiavi di lettura del nostro passato prossimo.
Martini, Heinz Tomato Soup, Kissinger, un bacio omosessuale tra due gentlemen che sembrano usciti da Mad Men, mentre Smoky Joe Frazier - signori, che pugile! - mette al tappeto qualcuno. elefanti, lingotti, aereoplani, la mitragliata di un caccia sopra l'imperatore dei club sandwiches, macchine fotografiche - l'anima di Life - macchine da scrivere, macchine, costose o popolari, l'America, Dio mio, un marinaio in divisa che bacia la sua bella, affianco a un cavallo che muore e alla principessa di un qualche staterello da gossip della finanza. RICOTTA TUTTA CREMA 30c RICOTTA FINA 25c, mr. Churchill - Buongiorno, speravo avesse finito di perseguitarmi - un'indigena nuda contro il culo di una statua greca, Bob Guccione, Bob cristoddio Guccione! Stalin saluta, Joe DiMaggio colpisce, Zarathustra parla, e le commesse in grambiule a scacchi rossobianco assaggiano: "mmm its tasty!"
L'opera di un pazzo, di un genio, di un furbastro, di un autistico. Perché questo significa stare 7 anni a ritagliare numeri di Life con dovizia certosina, ricreando quell'ideale striscia di terra dal respiro così whitmaniano, manifesto già nel titolo dell'opera, sulla quale hanno seminato due generazioni.
E di cui oggi in tasca abbiamo i frutti.
L'opera di un pazzo, di cui è difficile a prima vista comprendere la grandezza, schiacciati come siamo dal peso di quel collage semovente e semivivo che autogiustifica la sua stessa esistenza.
L'opera di un genio e se non ti piace è perché provi a darti un'aria snob ma ehi, parli anche di Elvis qui, di the King, degli studenti dell'Alabama, di Nixon e Guernica.
Cerco di pensare come l'avrebbe trovata Howard Hughes. Prima d'ogni altra cosa avrebbe fatto sterilizzare la stanza.
Con questo pensiero esco dalla Neue.
Gestire un blog è una cosa che richiede tempo e impegno, ma soprattutto quel minimo di mezzi, tipo un portatile, di cui il vostro gonzissimo reporter non dispone. Eppure, indomabile, di fronte all'incombenza del lavoro, nemmeno la tastiera tedesca dell'internet point riesce a fermarmi. Questo mi porta a non correggere mai, per noia, per mancanza di tempo. Scrivo sulla mail, non c'è Words. Non c'è niente, a parte un sacco di lettere inutili per il nostro alfabeto: ö ä ü ß µ eccetera.
Qualcuna di queste mi ricorda i trascorsi da liceo classico, quando credevo nell'integrità di quell'arte di cui ora non faccio che parlar male.
La verità è che parlarne male è una cattiveria quasi del tutto gratuita che affonda le sue radici nella delusione. E' come fidarsi ancora di uno sbirro, pretendere che un politico non sia corrotto, o affidare il proprio pargoletto a un prete dallo sguardo ambiguo e le mani sudaticce senza nemmeno un attimo di esitazione.
Quando vuoi tanto bene a qualcosa (non che qualcuno sia mai riuscito a voler bene a uno sbirro), le delusioni ti fanno ancora più male. Le accusi all'altezza dello stomaco. A me l'arte fa star male, da un pò di tempo a questa parte.
Qualche settimana fà, la mia ragazza (uno splendore di ragazza ultrapragmatica che si pone spesso da argine rispetto alla mia marea nera di stronzate), mi ha fatto notare come il mio (è il terzo "mio" in una riga, e gia questo basterebbe), il mio egocentrico desiderio di autoreferenzialità, riassumibile in un "io so' io e voi nun siete 'n cazzo", per quanto più o meno inconsapevole, la stesse distruggedo. Io, come sempre, ho urlato, ho sbattuto, mi sono infuriato, le ho detto che io! Oh, io! Come poteva lei! Proprio lei! Dopo che io! Oh, io! Bah, "scempiaggini".
A guardarmi adesso, sembravo molto un giovane Arturo Bandini.
Lei, tranquillamente, mi ha risposto che era inutile tanto fuoco, che dovevo dimostrarle qualcosa. Perchè quel qualcosa non lo sentiva più. E, il Signore m'è testimone, aveva ragione.
Ecco, oggi farei all´arte la stessa obiezione. E il sentimento è un qualcosa di tanto più fisico, quanto più opere come quelle della Favaretto mi si parano davanti, quasi come un miraggio.
Mi fa male vedere che c'è ancora del buono in arte, perché ho paura riaprendomi di subire l'ennesima delusione, come un'amante tradita che si avvicini ancora all'uomo che l'ha distrutta.
Il lavoro della Favareto mi di apre davanti senza complimenti. Su un fianco, il deposito ferroviario.
Sono vittima di un doppio fremito.
E' come se dieci anni di esperienza nelle fabbriche e nelle situazioni d´abbandono (questo è tendenzialmente ciò che sono) fosse stato risucchiato da un aspirapolvere celeste e rivomitato tutto qui, a Kassel, tutto, interiora di camion che hanno visto il Muro, container dell´epoca del tira la cinghia, cingoli, generando un intrico estremamente dinamico di lamiere, ruote e ingranaggi, corpi vuoti, esausti, una sorta di anti palta dell´epoca dell´acciaio (così cara ad Alessandro Spera), un compendio di quanto di grandioso è stato sino ad oggi.
Mi ricorda Cairo Montenotte, la sua imponente siderurgica con quel altoforno che ti osserva immobile e morente come un capodoglio spiaggiato.
La potenza delle macchine è ancor più intuibile nelle loro articolazioni spezzate, stravolte, tagliate come il burro e dure come il ferro di cui sono fatte.
E' un bal lavoro, da godere, distratti solo dal deposito dei treni, richiamo costante per i vandali, girandovi intorno e addentrandovisi con un bel suca ai cartelli di dOCUMENTA che ti chiedono per piacere di evitare e che ti ricordano che se lo fai lo stesso sono solo cazzi tuoi.
Dopo anni passati in un lerciume ben peggiore di questo, mi sento più a casa tra le macerie della Favaretto che nell'ospedale trasformato in fretta e furia in studentato.
All'interno dei fabbricati della ferrovia, oltrepassata una sorta di tenda di plastica spessa (tipo quei film con il morbo mortale e i tipi in quarantena e i dottori che entrano nelle tende per svolgere test da cui dipende la sopravvivenza dell'umanità), un'installazione interessante di Haegue Yang, "Approaching: choreograph engineered in never-past tense".
L'interno del deposito dismesso si sposa benissimo con questa serie di veneziane elettriche che si alzano e abbassano meccanicamente, ricreando un ritmo lento e cadenzato, che l'opera di William Kentridge, nella stanza limitrofa, sta per spezzare.
"The refusal of time" è un'opera che ti cattura. 5 proiettori spargono su tre quarti della sala immagini confuse tra il disegno e il filmato, un collage 2.0 che si anima al suono dei megafoni (le musiche sono di Philip Miller). Al centro, una "breathing machine", chiamata Elefante, che si apre e si chiude con la potenza aspirata di una fisarmonica. Il crescendo strumentale a volte ricorda un circo mostruoso, o Tom Waits, quel "The black raider" proposto proprio qui a Kassel, fino all'8 luglio.
Non essere riuscito ad andarci mi ha infastidito parecchio, in effetti. Ma adesso la musica, alimentata da un'oscurità quasi pellegrina, molto america della wilderness (in quelle capanne da puritani dove si teneva la messa), la musica, allucinata, gonfia la stanza e alimenta le immagini che scorrono sul muro. Il ritmo da catena di montaggio ottocentesca (consigliamo l'ascolto di Russian Dance di Tom Waits per capire meglio di cosa stiamo parlando, o di farsi assumere a Termini Merese per un giorno) e´ sottolineato dall'architettura della sala.
Amo il profumo della rovina, del decaduto, del tempo che con il suo cadavere ammorba un presente unto, più unto di un cormorano dopo un disatro petrolifero. Amo pensare che attardarsi ancora un minuto in questa sala voglia dire ritardare di un minuto la fine.
Usciamo di lì e il disagio di Kassel ci inghitte di nuovo, in un attimo. Propongo di dare fuoco a un barbone, giusto per passare il tempo, ma i miei compagneros mi dirigono verso un locale in realtà chiuso, che fa molto Christiania, una di quelle aree ex industriali tedesche che puzzano ancora di Guerra Fredda.
A quanto pare, stasera c'è un party di musica elettronica.
Su un muro, affianco agli immancabili mille graffiti, campeggia un poster:

THE HOUSE OF MUSIK THE TEMPLE OF BOOGIE THE CHURCH OF DISCO
- TRAVOLTA INFERNO -

Ok, sono a casa.
Mi siedo a prendere appunti su un'altalena con attaccata alle catene una carrozzella. Tutto il giardinetto è fatto di carrozzelle, un parco giochi per anziani (serivrebbe una foto, me ne rendo conto), semplicemente commovente.
Solo un brivido nel pensare che è venerdi tredici. Questo sarebbe lo scenario perfetto per un film di Rob Zombie. Benvenuti al Titty Twister dei freak.