…and …and …and (& others)

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Indice :

1 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

2 LA GIORNATA PARTE ALL’INSEGNA DEL BUONGUSTO

3 NEUE GALLERIE

4 …and …and …and (& others)

5 …and …and …and (& others) II

6 21.7.12

7 WE'RE UGLY, BUT WE HAVE THE MUSIC

8 DAY AFTER

9 SANTONI A CONFRONTO


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Immaginati la palestra sgombrata di una scuola tedesca del Muro. Con i canestri ritirati sul soffitto e le reti che pendono verso le teste curiose che le osservano.
Prova a pensare a un giovedì di pioggia in quei di Kassel, pieno luglio, i treni che vengono e vanno per l'Hautpbanhorf, con le vecchie signore che imbracciano mappe e mappette, e credendo di poterti chiedere qualsiasi cosa nella loro lingua solo perché hai un cartellino al collo.
Venite pure, tedeschi maledetti, vi sto aspettando.
La sede dove hanno base (una delle basi) Rene Gabri e Ayrin Anastas, la Turnhalle, è una vecchia scuola, intitolata fino al ’45 ad Adolf Hitler.
I lavori si fanno in comune, sul retro coltivano piantine e sapori, più qualche verdura, in scatolacce da mercato. Gli avanzi vegetali vengono gettati in un box dove pascolano i vermi (il cosiddetto “compost”), che producono il fertilizzante per i sopracitati vegetali dei quali si ciba chiunque si sieda al nostro (loro) tavolo.
Il mangiare è rigorosamente bio, anche se non necessariamente vegetariano.
La carne, in cucina, non la vediamo quasi mai. I soldi che dOCUMENTA ha assegnato al progetto “…and …and …and” sono destinati, tra le altre cose, a sfamare i partecipanti. La clausola, il bio, che porta a spendere capitali per un cavolfiore, rende irrealistica l’ipotesi fettina.
Oggi cucino, insieme ad altri italiani. Cerco furtivamente di aggiungere olio, sale, burro, ovunque sia possibile.
Sembra che il cibo possa, debba salvarci la vita, eppure tutti qui fumiamo come ciminiere (unico rimedio contro la noia), e gli alcolici di certo non mancano.
Mi annuso le mani. L’odore basico del potassio e della terra grassa è imputabile alle patate – la fascinazione per l’alimentazione “sana” proprio non riesce a attecchire, in compenso questa cucina mi ricorda la fine di agosto in campagna dai miei, le verdure che mia madre mi mandava a raccogliere da Giovanni, il contadino poco distante dalla nostra terra, conscia, fin troppo, del privilegio del chilometro zero.
Perché la filiera corta è un privilegio, non bisogna mai dimenticarlo. Porci borghesi.
Un tempo la gotta era la malattia dei ricchi. Oggi è l’anemia.
Vado nella sala comune per rilassarmi due minuti mentre i fagioli si stanno cuocendo nel loro sugo.
Mi siedo su una sedia nella zona comune cintata, la parte della palestra dedicata a chi partecipa al progetto (oltre a Rene e Ayrin, altri artisti, video maker, performer, studenti di accademie e istituti d’arte, qualche curioso, e esponenti di Occupy Kassel ogni tanto compaiono), divisa con un cordone dalla parte ove possono accedere i curiosi della dOCUMENTA.
Preparo una sigaretta di tabacco offertami da R. riflettendo su un sacco di cose, nessuna realmente importante, o forse anche fin troppo, perché tutte hanno a che fare con gli irrisolti che ho lasciato a Genova, in attesa. Mi sento una merda, e accendo la sigaretta con un fiammifero.
Aspiro il fumo, ne faccio anelli che mi circondano la faccia, considerando se fregarmene o meno del divieto di fumare in palestra.
Alcuni turisti si affacciano dal cordone e cominciano a studiare la mia immobilità, curiosi.
Mi sento la caricatura di un performer. Questo mi fa incazzare, sulle prime.
Non cedo al carattere e rimango immobile, senza guardarli, avvicinandomi di tanto in tanto la sigaretta alle labbra per aspirarne una lunga boccata, risputata fuori dal naso.
Due, cinque, dieci minuti. La sigaretta è finita, i turisti (ora sei) rimangono al loro posto.
Mi osservano come si osserva una strana creatura, una cosa rara e superflua, come se ogni mio afflato fosse manifestazione di non so quale dubbia energia artistica. Io sono il niente vomitato dal caso su questa sedia, eppure sono colluso a doppio filo con l’esperimento sociale di cui tanto male parlo.
Io, Rene, i miei compagni di accademia, i vermi del composto, questi turistacci crucchi stiamo facendo l’arte.
Con la A maiuscola, perché, ricordiamocelo, è a dOCUMENTA che siamo. Una manifestazione talmente arrogante e conscia del proprio peso che si può permettere l’intestazione minuscola come scelta di stile per il logo.
Io, e tutti gli altri, non siamo semplici pedine. Per carità. Il livello d’immedesimazione che la gente qui riesce a raggiungere farebbe impallidire persino Pessoa. Non solo si arriva a provare realmente quello che si finge di provare, ma si arriva a voler trasmettere a tutti i costi questo inganno al prossimo, fino al punto che certa gente scappa in lacrime o ha attacchi di panico durante un workshop che riguarda la musicoterapia, il guardarsi fissi negli occhi, il ricercare un contatto fisico col prossimo attraverso la danza.
Comunque, tra una chiacchiera e l’altra, riusciamo a preparare una parvenza di cena. Patate bollite e scottate in padella, con soffritto di cipolle, origano e un pizzico di basilico greco più per scena che altro, fagiolini rossi, sempre soffritti, con pomodorini freschi aggiunti a fine cottura, cavolfiore quasi gratin (manca il forno), con besciamella fatta a mano, noce moscata e farina di farro. Per finire, insalatina di finocchi e mele (con la quale io non ho nulla a che spartire).
Mangiamo tutti all’aperto, una lunga, apostolica, tavolata. Carolyn, la curatrix maxima, compare, ogni tanto, saluta, fa due chiacchiere (con noi, in italiano). Mi ricorda molto una cena di qualche sera prima, quando ho fatto, insieme con i miei compagni, la sua preziosa conoscenza. Lei, sorridendo radiosa, non aveva mancato di sottolineare il suo entusiasmo per la nostra partecipazione (voluta fortemente dal progetto Maybe Educational), sottolineando come questo legame sia doppiamente importante, e perché permette a dOCUMENTA di utilizzare manodopera sostanzialmente gratuita, e perché rafforza il legame tra dOCUMENTA e le scuole d’arte.
Sempre secondo Carolyn (che si premura di conoscere i nostri studi e le nostre ambizioni), dOCUMENTA non può che seguire due strade: legarsi sempre più a istituti d’arte barra accademie, o aprirsi sempre più verso un’ottica di mercato, riciclandosi in “fiera”.
Vorrei obiettare, ma non so chi se la porta via, e lei cede con piacere alla lusinga di cambiare palcoscenico.
Per un attimo sono portato a credere che la cena sarà qualcosa di culturalmente pantagruelico. Le intenzioni sono interessanti, ma la tavola imbandita non fa che riconfermare la strisciante struttura piramidale del “laboratorio orizzontale”: Carolyn a capo tavola, seguono Rene, Ayrin, artisti, critici e lacchè vari, fino ad arrivare a noi, l’ultima ruota del carro. Che nonostante questo siamo un’elite.
L’aristocrazia della Vandea, in un contesto da Rivoluzione Francese.
Provo a chiudere gli occhi per un secondo, a immaginare cosa sarebbe l’afrore delle macerie, quelle vere, non le installazioni poco distanti della Favaretto, quelle della guerra, della Terza, accendo una sigaretta con un fiammifero e me ne infilo il cerino su per il naso, poi lo caccio in bocca masticandolo con rabbia, sempre stringendo le palpebre incollate, e provo a figurarmi la guerra, qui, ora, il nemico che avanza, che è già avanzato, che ci da quasi alle spalle, i rastrellamenti, le bombe, l’acqua pesante, i vagoni piombati che proprio da questa stazione partivano e partono di nuovo alla volta dei Campi.
Provo a figurarmi la Morte.
Eppure, lei, non arriva. Allora ripiego sulla tortura, sul dolore, sull’apatia e l’afasia dei prigionieri, e proprio sull’immagine del prigionieri, dell’asino prigioniero, della foto selezionata alla Neue da Sanja Ivekovic (ovviamente inerente il nazismo, demone latente e croce della Germania), mi fisso. Ed ecco, è proprio un campo di prigionia e correzione cambogiano quello in cui mi pare di essere stato catapultato. Memorie di Pol Pot. Potrei tirarne fuori un libro modesto, per Feltrinelli, potrei aprire un agriturismo, potrei semplicemente impiccarmi, come più volte al giorno mi consiglia il mio amico e squisito scrittore Alessandro Spera.
"Ciao Ale, spero che il tuo esilio tra i ghiacci non ti sia ancora stato fatale".
Sanja Ivekovic, a modo suo, ci ha beccato. Asini, icone, biografie. Primo Levi, Martin Luther King, Rosa Luxemburg (davvero?! Ancora?!), Giuseppe Pinelli, Victor Jara, Ernesto Guevara della Sierna detto “el Che”, Wiwa, Anna Politkovskaya (non so se per volontà o caso il pupazzo-asino più grande). L’asino, l’animale proletario, la bestia da soma, la carne da macello. Il lavoro di Sanja Ivekovic a me rimanda solo l’asino di Caligola. E, bando alle interpretazioni ufficiali, è solo sotto questa luce che posso guardare ‘sti (in)consapevoli pagliacci. Salve, sono un nichilista.
Sì, certo. Detto questo. Asini di peluche e il nome di Jan Palack, non possono che sottendere a questa conclusione: Ifigenia non è morta per una causa molto diversa dalla vostra.
Sempre alla Neue, decisamente più interessante il lavoro di Roman Ondak, “Observation”, una serie elegantissima e minimale di foto che, sottotitolate da spiegazioni spesso non lineari, alimentano pensieri lapalissiani, seppur divertenti.

(continua)