…and …and …and (& others) II

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Indice :

1 UnDocumenta(13) - Per un archivio dell'istante

2 LA GIORNATA PARTE ALL’INSEGNA DEL BUONGUSTO

3 NEUE GALLERIE

4 …and …and …and (& others)

5 …and …and …and (& others) II

6 21.7.12

7 WE'RE UGLY, BUT WE HAVE THE MUSIC

8 DAY AFTER

9 SANTONI A CONFRONTO


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Documenta vuole mostrarsi come un macchinario non politico ma che sulla politica riflette. Il punto è che sbaglia altari.
La didascalicità del “saluto ai Sixties” disinnesca qualsiasi artiglio. La chiave di lettura è quella passatista, più che imbullonare la corazza, la si ripone nella teca, sperando che il contenitore seppur privo di contenuto possa vitalizzarsi, come un golem, al solo afflato di misteriose parole butleriane. Ma non è così.
Eppure, dOCUMENTA, non è una cosa brutta, anche se manca di una struttura in grado di reggere il peso delle proprie aspettative.
Le opere ci sono, le belle opere. Poco distante dal laboratorio-officina-esperimento sociale, i vecchi depositi ferroviari ospitano ad esempio il lavoro di Haegue Yang, “Approaching: choreography engineered in Never-Past Tense”. L’installazione, veneziane elettriche, si sposa benissimo con l’interno dismesso del deposito, muri di mattoni pieni a vista i cui intonaci, inumidendosi e scrostandosi, contribuiscono a creare il contorno ideale per quest’ufficio da film dei fratelli Cohen, il cui ritmo di su-e-giù si spezza una volta entrati nella sala di William Kentridge. “The refusal of time”. Cinque canali proiettati su tre delle quattro pareti, musica che esce dai megafoni, e una “breathing machine” (chiamata Elefante, e che a me ricorda quegli splendidi vecchi telai da rivoluzione industriale).
Le musiche sono di Philip Miller, la coreografia di Dada Masilo, e la drammaturgia di Peter Galison. Benissimo, tutti questi dati non vi servono a niente. Perché le ondate che gonfiano la stanza scura non sono descrivibili, a meno di non assumere un vero scrittore. La musica in un crescendo a tratti circo mostruoso a tratti Tom Waits (il cui disco-spettacolo, “The black raider”, è nei teatri proprio qui a Kassel fino all’8 luglio), muove lo spazio, alimenta immagini che scivolano sui muri. Il ritmo da catena di montaggio è sottolineato, quasi evidenziato, dall’architettura solida della stanza. Rimango a veder tutto il filmato. Poi di nuovo. E ancora.
Perché è un lavoro su cui vale la pena di soffermarsi, ben più di “Muster (rushes)” di Clemens Von Wedemeyer, sua dirimpettaia, o della cava d’Artaud di Javier Tellez.
Javier parte dal viaggio in Messico del 1936 di Antonin, e dal suo lavoro “the conquest of Mexico” (1934), per mettere in scena i principi fondamentali del Teatro della Crudeltà.
Una cine-grotta in cui è proiettato questo film fatto in collaborazione con i pazienti dell’ospedale psichiatrico Fray Bernardino, che sono anche co-scrittori e attori. Un film “a metà tra il vero e la finzione, tra il documento e la storia, tra osservazione e partecipazione”. Una merda, di una didascalicità scolastica che mi fa rimpiangere la Naba per un attimo.