Equipèco Anno 5 Numero 17 autunno 2008
MANIFESTA IS a new European contemporary art event, taking place every two years at a different European location (1996)
A metà degli anni Novanta, sotto la direzione di Hedwig Fijen, viene lanciato da Amsterdam il nuovo format di Manifesta: un ambizioso progetto espositivo biennale dedicato all’arte visiva contemporanea.
Il processo itinerante dell’evento attraverso l’Europa è la prima novità introdotta dagli olandesi a pochi anni di distanza dalla nascita dell’Unione europea (novembre 1993) che rafforzava, con l’introduzione della nuova Cittadinanza, i diritti di soggiorno, di stabilimento e di libera circolazione delle persone nel territorio dell’Unione. La visione paneuropea e l’aspetto nomadico di Manifesta hanno richiesto, fin dall’inizio, la formazione di team curatoriali esterni in grado di tenere insieme gli orientamenti delle nuove pratiche curatoriali alle differenti caratteristiche delle città ospitanti. L’obiettivo finale è la realizzazione di un progetto artistico con forte radicamento all’identità dei luoghi, questione regolata peraltro da pratiche costanti di consultazione e di collaborazione con le principali istituzioni culturali, accademiche e sociali del territorio.
Il battesimo ufficiale di Manifesta si tiene a Rotterdam, in Olanda, nel 1996 a cui seguono le edizioni di Lussemburgo (Granducato del Lussemburgo, 1998), di Lubiana (Slovenia, 2000), di Francoforte (Germania, 2002), di San Sebastián (Spagna, 2004) e l’incompiuta tappa di Nicosia (Cipro, 2006), ostacolata dalle tensioni politiche interne alle due comunità cipriote che dividono la città: quella di origine greca e quella turca.
L’itinerario dimostra dunque la predilezione degli organizzatori per i territori di frontiera o per i piccoli centri di fermento e sperimentazione artistica, a svantaggio delle grandi metropoli del potere culturale e del mercato artistico. Questo principio viene infatti replicato anche in Italia, che ospita quest’anno la settima edizione di Manifesta in Trentino-Alto Adige. Il 2008 ha introdotto un nuovo elemento di discontinuità rispetto ai progetti del passato: il decentramento della Biennale in differenti poli espositivi e quindi il coinvolgimento dell’intera regione.
Inaugurata lo scorso luglio, Manifesta 7 si sviluppa infatti sull’asse del Brennero che collega la Vallagarina all’Alta Valle Isarco nel sudtirolo, con fermate a Rovereto, Trento, Bolzano e Fortezza. Un percorso di centotrenta chilometri che abbraccia un ricco patrimonio di storia locale, di importanti strutture artistiche e culturali, di suggestivi edifici di archeologia industriale e che riassume, in sintesi perfetta, la multiculturalità e il multilinguismo dell’intero territorio.
Da ciascuna città sono partiti i principi ispiratori per le quattro mostre della Biennale, affidate alla cura di tre équipe di curatori: Principle Hope di Adam Budak, ospitata a Rovereto; The Soul di Anselm Franke e Hila Peleg a Trento; The Rest of Now del Raqs Media Collective a Bolzano; Scenarios realizzata a Fortezza e alla quale hanno lavorato tutti insieme. La scelta delle location espositive è uno dei punti di forza dell’intero progetto. Ogni comune ha infatti disposto restauri e riaperture di vecchi edifici industriali o storici, come nel caso del Palazzo delle Poste di Trento, affidando a Manifesta un patrimonio immobiliare di grande fascino. Un discorso particolare merita invece la sede di Fortezza ovvero lo storico forte asburgico edificato dall’imperatore Francesco I nella prima metà dell’Ottocento.
L’impatto di questa architettura sul territorio, la sua inedita vicenda storica e il forte immaginario che da essa scaturisce, sono la sostanza stessa della mostra.
Edificato come avamposto a difesa delle province meridionali dell’impero austriaco, questo incredibile sito militare non fu mai teatro di guerre ma una base strategicamente inutile e destinata all’abbandono. Durante la Prima Guerra Mondiale fu utilizzato come magazzino e una volta passato in mano all‘Esercito Italiano fu convertito a polveriera. Nel 1943 i nazisti si servirono invece del forte per nascondere parte delle riserve aurifere prelevate dalla Banca d’Italia.
Il patrimonio non fu mai del tutto ritrovato e attorno a questo mistero sono nate le leggende dell’oro di Fortezza. In questo sito echeggiano quindi le suggestioni di un passato costruito su scenari di attesa e di minaccia, sul senso di precarietà, sulle ipotesi di battaglia e sugli intrighi costruiti intorno alla scomparsa dell’oro.
Il progetto di Fortezza ruota proprio intorno alle suggestioni di questi scenari che sono stati l’ispirazione per i dieci scrittori internazionali invitati a visitare e a comporre nuovi immaginari del luogo. Attraverso il potere evocativo della parola, della voce e della drammaturgia di Ant Hampton, che ha fatto recitare e inciso i vari contributi, ciascun racconto aggiunge nuove semiosi alla naturale qualità scenografica di luci, ombre e rumori dell’ambiente.
Una grande macchina teatrale dei possibilia, in cui le verità raccontate non appartengono al dominio del mondo attuale ma alle situazioni alternative di mondi possibili.
Nel testo The Briefing l’indiana Arundhati Roy riflette sui paradossi che hanno governato la storia del luogo costruendo un parallelo metaforico fra la Fortezza (che non è mai stata attaccata) e l’arroganza del potere nel mondo di oggi. «Quando le ossa di pietra di questo leone di pietra saranno interrate nella terra inquinata, quando la Fortezza-che-non-è-mai-stata-attaccata sarà ridotta in macerie e la polvere delle macerie avrà formato dei cumuli, chissà che non nevichi di nuovo».
In Imagine This Wherever And Whoever You Are l’artista americana Renée Green analizza invece i meccanismi stessi di produzione dell’immaginazione, intesi come forme di protezione immaginata e tantativi di rifugio sicuro dalla realtà. Un piccolo edificio nel cortile della cittadella fortificata ospita invece una rassegna di Silent Film dove troviamo anche l’ottimo So Is This (1982), perla del regista canadese Michael Snow. Premiato al Los Angeles Film Critics nell’anno di uscita, il film di Snow si gioca sul montaggio di singoli fotogrammi neri con parole sovraimpresse a caratteri bianchi che sviluppano una sequenza di proposizioni paradossali e cariche di humor. Una decostruzione formalista del linguaggio e del concetto stesso di cosa sia il cinema.
Scendendo a Bolzano il Raqs Media Collective (Jeebesh Bagchi, Monica Narula e Shuddhabrata Sengupta) ha curato The Rest of Now, mostra che pone al centro della propria analisi quegli aspetti marginali e quei residui che la moderna società scarta nel processo interminabile (e inesorabile) di produzione e di selezione dei propri beni materiali e immateriali.
The Rest of Now è ospitata nei locali dell’ex Alumix, una vecchia fabbrica di trasformatori elettrici nell’area industriale della città. Da anni qualificata come archeologia industriale, questa architettura è essa stessa il paradigma macroscopico del tema curatoriale ovvero una struttura abbandonata, residuo di una funzione lavorativa conclusa.
Ogni artista a Bolzano dimostra un ossequio e una riappropriazione critica del residuo. Affinché nulla vada trascurato o perso avvertono l’urgenza necessaria di documentare, di sovraesporre o di accumulare secondo la scienza dell’archivio.
A quest’ultima posizione si rifà il lavoro Pandora’s Index di Lawrence Liang, che ripropone il modello classico degli indici raccolti negli schedari delle biblioteche come metafora dell’utopia contenuta nella continua ricerca di ordine e di controllo del sapere.
Sempre incentrata sul tema dell’archivio è la rassegna di video Post-Production presentata da Neil Cummings e Marysia Lewandowska. I filmati sono selezionati dall’Enthusiasts: Archivi, un progetto messo in rete dagli artisti e che raccoglie materiale cinematografico prodotto dai cineclub amatoriali attivi in Polonia durante il socialismo. La rassegna è un’intelligente scelta di titoli che, come per il loro archivio, intende stimolare interesse e discussione intorno alla natura dello scambio creativo, alla funzione stessa degli archivi pubblici e al futuro del dominio pubblico.
Il Contemporary Culture Index è invece un progetto collettivo avviato nel 2001 a San Francisco da un gruppo di bibliotecari che operano nel campo della ricerca accademica. Si tratta di un archivio digitale online, multidisciplinare e open source, che contiene giornali e periodici internazionali (molti dei quali non occidentali), spesso vengono ignorati e non catalogati nei comuni database.
Lo spagnolo Jorge Otero-Pailos s’impegna invece a non disperdere e a documentare i residui che il tempo e le vicende storiche hanno depositato sui muri dell’ex Alumix. Attraverso una tecnica simile allo strappo, applica ai muri pellicole di lattice che trattengono i depositi di sporco e di polveri, uniche tracce tangibili della storia dell’edificio.
Esattamente al centro della fabbrica è allestita la monumentale Skylight Tower, dell’artista lituano Zilvinas Kempinas. L’opera è realizzata srotolando centinaia di nastri magnetici di videocassette VHS (tecnologia ormai in declino) lasciati pendere dal lucernaio del soffitto fino al pavimento per un’altezza di dodici metri. Ogni fibra della struttura ondula e rotea su sé stessa, vibra di luce e rimanda cangianze colorate che provocano un effetto destabilizzante sulla percezione ottica e fisica.
Uno degli interventi piú controversi della mostra è il progetto The World Next Door dello svedese Jörgen Svensson. Si tratta di due falsi documentari proiettati l’uno sul verso della superficie dell’altro. Clown Town è introdotto dal racconto del ritrovamento di alcune rare pellicole che ritraggono vizi e manie di un’inquietante comunità di persone con sembianze da clown. Una realtà anomala che suscita angoscia e senso di coulrofobia. Brothers in Sin è invece presentato come prova documentale di una serie di delitti perpetrati negli anni Ottanta, negli Stati Uniti, da una coppia di fratelli che registravano gli assassinii. Cinque esecuzioni rapide e girate con una qualità tecnica low-fi. Il taglio documentaristico confonde i piani fra realtà e simulazione mettendo in scena la perversione di un meccanismo ormai largamente accettato dalla moderna società dello spettacolo.
Toccante infine la piccola restrospettiva Image, 1995-2002 dedicata ai collages e ai dipinti della collezione privata del Professor Bad Trip prematuramente scomparso nel 2006.
A Trento un’intera ala del razionalista Palazzo delle Poste è dedicata alla mostra The Soul (or, Much Trouble in the Transportation of Soul) a cura Anselm Franke e Hila Peleg. L’obiettivo è impegnativo. «Questo progetto propone di esaminare l’Europa di oggi non come un’entità geopolitica in espansione ma dal punto di vista della sua psiche o della sua anima [...] The Soul (l’anima) segue la svolta verso l’interno dei confini espansionistici della modernità europea e indica che la produzione, la mobilizzazione e la rappresentazione del sé interiore costituiscono una frontiera finale, un ultimo fuori».
In sintesi la mostra è il tentativo poetico di produrre rappresentazioni e immaginari inediti dell’Europa moderna, guardando al suo centro mitico (ovvero all’anima) o al suo mondo interiore: emozioni, memorie, immaginazione, fantasia e auto-coscienza.
In fondo allo scalone d’ingresso del Palazzo delle Poste il percorso espositivo è inaugurato dall’installazione Mani in Festa di Luigi Ontani; un’intervento site specific lungo tutto il corridoio storico dell’edificio che ancora conserva le finestre originali realizzate da Enrico Prampolini.
Le sculture di ceramica policroma e le grandi fotografie lenticolari di Ontani si inseriscono nell’architettura restituendo un gusto scenografico che tiene testa agli interventi originali dell’epoca con meravigliosa allegria e discrezione. Nel palazzo l’allestimento è costretto a un’andamento convenzionale fra stanze e salette che riservano ampio spazio alle produzioni video.
Innanzitutto occorre precisare che l’iniziativa di creare piccole piattaforme speculative all’interno del percorso espositivo dedicate a temi quali l’istruzione nella percezione, i test della personalità proiettiva, la storia dell’antipsichiatria o la complessa relazione fra immagine e anima, è audace ma risolta in modo forse troppo didascalico e noioso. Un deciso scarto in avanti lo si deve al Museo della Normalità Europea, di Maria Thereza Alves, Jimmie Durham e Michael Taussing, che tocca il paradosso della normalità europea. Il museo ricostruisce il carattere europeo a partire dall’analisi, focalizzata sulla seconda metà del Novecento, di nevrosi, abitudini e automatismi del continente. A partire da questa indagine, gli artisti evidenziano la natura grottesca e totalmente assurda dell’assunto di base.
Tra i video delle prime sale troviamo la bizzarra quanto lucidissima creazione dell’israeliano Omer Fast che presenta Looking Pretty for God (After G.W). Il film è tratto dalle conversazioni dell’artista con alcuni addetti alle pompe funebri. Gli intervistati restituiscono proposizioni quali: malattie e incidenti mortali rendono il corpo brutto; l’ultima apparizione deve lasciare un buon ricordo; occorre ingannare la morte facendola sembrare uno stato di sonno. Questi solo alcuni dei problemi a cui far fronte per onorare il culto dei defunti. Il film rivela cinicamente i trucchi e l’arte del make-up (con prodotti di cosmesi ma anche di ferramenta) che garantiscono al defunto un’uscita di scena spettacolare.
Un complesso intreccio di riferimeti storici, letterari e culturali strutturano l’Oedipus Marshaldi Javier Téllez, affascinante remake western dell’Edipo Re di Sofocle. Il video è girato in una ghost-town del Colorado con attori che sono pazienti di un ospedale psichiatrico. Come nella tragedia classica, gli interpreti indossano maschere che, in questo caso, sono prese in prestito dal teatro giapponese. L’opera di Téllez è un vero e proprio saggio visivo di straordinario spessore psicologico e delicato valore poetico.
Cattura l’attenzione anche The PrisonerLa Captive (2000) di Chantal Akerman. Anche nel film dell’artista la protagonista, sui tacchi alti, viene seguita lungo una scalinata. La cinepresa svolge un controllo ossessivo sui movimenti della donna e indugia in primi piani delle sue gambe o delle scarpe (non sfugge il parallelo con il feticismo per le gambe de L’uomo che amava le donne di Truffaut). Lo spettatore, di fronte alla ripresa in soggettiva, rimane esso stesso intrappolato nel circuito chiuso del film finendo per percepirsi nel ruolo attivo dell’inseguitore.
La Mort e La Miseria della canadese Althea Thauberger nasce invece dal lavoro con la piccola comunità ladina che vive in Val di Fassa. Il film è recitato con i costumi della tradizione della valle e in lingua ladina. La narrazione si costruisce intorno al racconto popolare e allegorico sulle sventure del paese, quando la miseria, in assenza della morte rimasta bloccata su un albero, ha stretto la sua morsa insopportabile sulla popolazione che cresceva e invecchiava senza mai morire.
Beth Campbell affronta il tema del dualismo reale/virtuale con la formidabile installazione Following Room che replica una serie di box espositivi Ikea disposti secondo un set che li rende uno speculare dell’altro. L’illusione è accentuata inoltre da una griglia che simula l’incastro di tante false superfici specchianti. Lo schema è spinto fino al limite dell’ossessivo e gioca sul gusto per il paradosso percettivo. Ogni oggetto è infatti reale dal punto di vista fenomenologico ma, inserito in questo palco dell’illusione, è anche virtuale se inteso come proiezione degli oggetti simili che lo circondano.
Interessante infine l’opera dei gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio che proiettano un dittico cinematografico incentrato sul tema dell’amore trascendentale e, allo stesso tempo, passionale. In A Star Love (Salvatore) un lungo bacio appassionato accompagna, come commento visivo muto, il racconto allucinato di Salvatore, un ragazzo con ritardo psichico, che narra la propria storia d’amore totalizzante. Appassionato di stelle, galassie e costellazioni, Salvatore parla di una partenza immaginaria dalla terra alla ricerca di una nuova galassia, di visioni di stelle incredibili, di uno smarrimento, del senso di morte e infine della salvezza per opera del suo grande amore. Ciascuna proiezione appare un omaggio a due brani essenziali della storia del cinema: da una parte Kiss diretto da Andy Warhol e dall’altro l’omaggio poetico all’amore per la vita nel monologo finale di Blade Runner.
A Rovereto infine Adam Budak è il regista della mostra Principle Hope, divisa in differenti piattaforme espositive localizzate in diversi punti della città. Le due sedi principali sono la vecchia fabbrica ottocentesca della Manifattura Tabacchi e l’ex fabbrica di cacao Peterlini, a cui si aggiunge anche un’ala della Stazione ferroviaria, sede di manifeSTATION, ideata dall’Office for Cognitive Urbanism. Principle Hope s'innesta dunque radicalmente nel tessuto urbano della città.
Il tema curatoriale della mostra si ispira ai concetti di speranza e di utopia (concreta) descritti da Ernst Bloch nella corposa opera Il principio speranza. In sintesi, l’utopia per Bloch è la verità a cui tendiamo, quando immaginiamo e bramiamo ciò che ci manca, contrapposta alla realtà data che non ci appaga mai pienamente. Il pensiero utopico può scoprire tracce del futuro nel passato e comunque oltrepassa sempre il dato attuale per mirare al futuro, non senza mediare tuttavia con le tendenze reali che operano nel presente.
La speranza è vista invece come attesa trepidante del nuovo, di un futuro sperato e che si traduce nella tensione e nella ricerca di esso. Sulla base dei concetti elaborati dal pensiero di Bloch, Adam Budak apre inoltre la riflessione al concetto di Regionalismo critico per affrontare il complesso rapporto fra spazio pubblico e spazio privato. Postulato all’inizio degli anni Ottanta dall’architetto inglese Kenneth Frampton, il Regionalismo critico è una nuova «cultura del costruire che, - scrive l’autore - mentre accetta un ruolo potenzialmente liberativo della modernizzazione, nondimeno resiste all’essere totalmente assorbita dagli imperativi globali della produzione e del consumo». La teoria di Frampton spinge dunque nella direzione dello sviluppo di «una cultura forte e carica di identità, che mantenga tuttavia aperti i contatti con la tecnica universale».
Nella sede dell’ex Peterlini il tema curatoriale proposto da Adam Budak è spesso declinato in relazione allo status e alle particolari vicende storiche che hanno caratterizzato l’edificio nel corso degli anni. Abbandonato da molti decenni e lasciato in una condizione di degrado assoluto, l’ex fabbrica è stata occupata a piú riprese dal gruppo anarchico roveretano la Nave dei folli. Contro l’incuria dell’amministrazione le occupazioni sono già state il primo slancio utopico e la prima tensione condivisa sul futuro dell’edificio. In quel caso, occorre sottolinearlo, si mirava tuttavia al recupero non in una funzione pubblica del sito ma dichiaratamente privata: «la casa è di chi l’abita».
All’ex Peterlini gli interventi piú minimali o simbolici sono spesso anche i piú radicali poiché evidenziano criticamente o modificano il vecchio status del sito. L’intervento Ex-Privato del rumeno Daniel Knorr, prevede ad esempio che l’edificio rimanga aperto 24 ore su 24 fino alla chiusura della Biennale. Johannes Vogl installa invece diversi spioncini nelle nuove pareti di cartongesso dell’ala restaurata del palazzo aprendo piccoli squarci sulla linea di confine fra la dimensione pubblica e quella privata (o vietata) dell’ex Peterlini. Ciò che vediamo è anche un memento visivo rivolto al passato e all’incertezza del futuro del luogo.
Il dibattito fra spazio pubblico e spazio privato ricorre anche nella pièce teatrale diretta da Miklós Erhardt e il collettivo Little Warsaw (Andras Galik e Balint Havas). La nave dei folli è un vero e proprio psicodramma che ripercorre le presunte conversazioni e gli accesi scontri del collettivo anarchico durante i giorni dell’occupazione.
Fortemente caratterizzato da una vena critica e anarchica risulta anche l’approccio alla realtà del polacco Janek Simon che reinterpreta o deforma per svelare i meccanismi e gli schemi di pensiero consolidati nella società moderna. Per Manifesta 7 realizza Volkswagen Transporter T2 un’installazione che altera la percezione di un mito moderno ritoccando la sua superficie con una combinazione di colori astratta. Nasce dunque un’opera che oltrepassa il potere dell’immaginario collettivo e trasfigura il veicolo in una nuova presenza gioiosa.
Principle Hope all’ex Manifattura Tabacchi di Borgo Sacco è invece l’area espositiva piú ampia dell’intero progetto. Nel cortile interno colpisce su ogni altra cosa l’installazione/performance The Schumann Machine di Ragnar Kjartansson. Si tratta di una performance brillante che l’artista islandese esegue all’interno di una fiammeggiante scenografia. Pochi accessori d’arredamento suggeriscono una scena grottesca in cui Kjartansson si muove recitando azioni burlesche e interpretando, in maniera ispirata ma totalmente surreale e ripetitiva, i Dichterliebe di Robert Schumann, accompagnato al piano dall’artista Davið Þór Jónsson.
Una forte componente ironica ritorna anche nell’ultima dissacrante performance di Oskar Dawicki montata nel video Tree of Knowledge. In tutti i suoi lavori il polacco deride le assurdità della società attuale, mette in discussione convenzioni e retoriche dell’artisticità e persino il suo riconosciuto status d’artista. A Rovereto mette in scenetta la trasgressione commessa dai progenitori Adamo ed Eva. La fame di conoscenza dell’artista però non è mai appagata e il gesto del morso alla mela è ripetuto con frenesia, con fretta e noncuranza. I piani delle metafore qui s’intrecciano. Uno di questi suggerisce un parallelo con il consumismo di oggi che, bulimicamente, assimila e rigetta i frutti del proprio tempo con ottusa insensibilità.
Sempre polacco è Micha? Budny che lungo uno stretto corridoio della Manifattura propone la scultura River. Con numerosi dischetti di cartoncino bianco distribuiti sul pavimento restituisce la suggestione fugace di camminare nel letto di un fiume su cui galleggiano centinaia di foglie. Un intervento minimo dunque che mira a far leva sui giacimenti della memoria e della conoscenza del pubblico e a stimolarne l’immaginazione. Quest’opera ripropone l’interesse dell’artista per strutture e situazioni costruite con materiali semplici e un linguaggio sintetico che fanno rivivere l’esperienza di fenomeni inconsistenti, temporanei e mutevoli della realtà.
Un altro intervento legato alla struttura dell’effimero è l’opera realizzata da Igor Eškinja, da sempre intento a indagare le relazioni mentali che intercorrono fra lo spettatore e lo spazio. In ogni suo lavoro la forma viene dematerializzata per il bisogno dichiarato di migliorarla e di renderla piú esplicita. Project for Untitled Piece è un tappeto dove la grazia degli ornamenti è realizzata con polvere e cenere. Il tappeto in questione è un oggetto di pura poesia che presenta, allo stesso tempo, una serie di conclusioni paradossalmente ironiche: non è possibile calpestarlo e le sostanze che lo compongono
sono esattamente le stesse che un tappeto elimina o cerca di nascondere.
Aprono invece alla contemplazione i film dell’olandese Guido van der Werve dove pathos e senso di compassione ci legano alle imprese solitarie dell’artista di fronte alla potenza grandiosa della natura. In Nummer acht. Everything is going to be alright, girato nello spettacolare scenario del golfo finlandese di Botnia, l’artista cammina lentamente verso la macchina da presa mentre dietro di lui, a soli quindici metri di distanza, incombe la sagoma di una nave rompighiaccio. Nella fragilità dell’artista a confronto con la potenza e la vastità di un oggetto che potrebbe travolgerlo in qualsiasi momento ritroviamo tutta la carica drammatica e sensuale del sublime. Nel secondo video, Nummer negen. The day I didn’t turn with the world, l’artista è al Polo Nord dove rimane in piedi per ventiquattrore nel punto in cui la terra s’interseca al proprio asse. L’artista gira su se stesso in senso contrario al movimento della terra, nella speranza di raggiungere un utopico equilibrio fra sé e il mondo.
La questione che sta alla base della video installazione di Heidrun Holzfeind è la costruzione di una nuova geografia della memoria in cui le esperienze collettive provano a intrecciasi agli stati emotivi privati. Durante una permanenza a Città del Messico l’artista austiaca ha studiato l’architettura della metropoli e i suoi cambiamenti organici mettendoli poi in relazione ad alcuni dei fatti piú dolorosi della storia della città. Sui quattro monitor di Mexico 68 vengono trasmesse otto interviste a testimoni del movimento studentesco sessantottino che venne represso militarmente durante la contestazione scoppiata a una settimana dall’apertura dei giochi olimpici. Ogni racconto riporta alla luce il tragico fatto da una prospettiva inedita, poiché privata e intimamente personale.
La pellicola in 16mm The House Belongs to Those Who Inhabit It di Runa Islam, artista inglese originaria del Bangladesh, recupera invece la carica eversiva e destabilizzante del già ricordato gruppo anarchico che occupò l’ex Peterlini. Trasgressivo e anarchico è infatti il modo in cui l’artista ha girato le immagini del proprio film. La camera è usata con la precisione di un tagger che scrive con lo spray sui muri. Il movimento è gestuale quasi fosse la camera stessa a disegnare la realtà che viene ripresa.
Il sound artist Florian Hecker propone invece Spazio Jens Blauert, interessante sperimentazione fra suono e spazio. L’opera è una complessa architettura sonora che sfrutta il principio delle bande direzionali, scoperto dall’ingegnere di acustica Jens Blauert, per definire i confini e la struttura di una precisa piattaforma spaziale. Grazie alle bande direzionali si recupera ogni informazione e percezione spaziale dagli oggetti sonori.
Il suono è protagonista anche nell’ultima sala al piano superiore della Manifattura Tabacchi, dove veniamo colpiti allo stomaco dall’installazione sonoro-visiva di Nico Vascellari. L’ambiente è una sorta di caverna buia in cui balenano, proiettatate su lastre di specchi rotti e scheggiati, le immagini di una foresta. Allo smarrimento visivo si aggiunge l’inquietudine di un sonoro che romba nell’ambiente adiacente. Dalla porta socchiusa si vede una selva di casse rovesciate a terra con i diffusori acustici rivolti al soffitto. Disposte come dieci piccole bare nere nella sala di un obitorio, le casse emettono un muro di suono assordante e distorto che distrugge la misteriosa quiete della stanza da cui spiamo. Anche in questo lavoro Vascellari continua la riflessione conturbante fra natura e cultura, ovvero fra uno spazio carico di vitalismo, di incontenibile creatività primaria e quel complesso di modelli (idee, simboli, azioni, disposizioni) presi dai riti tribali, dal folklore e dall’anarchica cultura punk e underground.
ALAN SANTARELLI è storico d'arte. Vive e lavora a Roma.