Equipèco Anno 7 Numero 23 primavera 2010
Città di plastica, paesaggi di plastica e tra non molto un essere pseudo-umano fatto di plastica: questo il tema della mostra di Davidson. Una denuncia, ma anche una constatazione di irrimediabilità del fatto: la nostra vita è fatta di plastica. Quello che vediamo intorno a noi è il prodotto della nostra evoluzione? E la nostra evoluzione ci porterà irrimediabilmente verso un mondo dove l’origine sarà annientata e totalmente sostituita dalla plastica e dai suoi derivati? Questo il dilemma che Davidson si pone e ci pone.
Con chi e con che cosa il nostro futuro dovrà fare i conti? Con cosa si cimenteranno le generazioni future? Avremo ancora sapori, odori, forme e colori così come oggi li conosciamo, o piuttosto tutto ciò sarà sostituito da nuove generazioni di sapori, odori, forme e colori? Il mondo si trasforma e noi siamo il prodotto di questa trasformazione. Ci trasformiamo in quel che mangiamo, generiamo quel che assorbiamo.
Joe Davidson riproduce mondi che solo all’apparenza sembrano inesistenti: intere città e paesaggi resi esclusivamente con l’uso di materiali plastici: città e paesaggi fatti di scotch tape o di bottiglie di plastica vuote contenenti in precedenza prodotti di uso quotidiano e di largo consumo. Tecnicamente l’uso della plastica è stato scelto per la sua duttilità e la sua indistruttibilità. Da un lato la possibilità di forgiarla a piacimento, dall’altro un tentativo inconscio di rendere immortale l’opera. La plastica si può degradare ma non si distrugge: un modo per superare il concetto di morte? Forme vuote fatte di materiale plastico: è questo il destino dell’essere umano? Indistruttibile per l’eternità, ma vuoto nei contenuti? Apparentemente il mondo sembra evolversi in tal senso: il mito dell’eterna giovinezza, corpi magnifici, scolpiti nei dettagli attraverso l’inserimento di protesi di silicone; l’esteriorità perfetta senza interiorità; l’apparire e non l’essere; la chirurgia estetica diventata necessità di sopravvivenza (!) perché inserisce nel corpo quella giusta quantità di indistruttibilità plastica per poter sempre più nascondere la vacuità dietro un’apparenza di perfezione meramente estetica. La mancanza di sentire e di essere nascosta dietro l’apparenza di bellezza: la bellezza di superficie che finisce con l’essere l’unica bellezza esistente, accessibile a tutti e senza sforzi; la bellezza finta e non la bellezza interiore. Questi i temi che sono alla base della ricerca di Davidson e di tutta la sua espressione artistica; non a caso l’artista vive e lavora a Los Angeles, luogo nel quale maggiormente si avverte questa evoluzione/involuzione (?) della società contemporanea.
MOUNTAIN landscapes: Paesaggi bucolici, intere catene montuose tutte forgiate con sapiente manipolazione di molteplici stesure di Scotch tape: paesaggi apparentemente naturali di montagna, dove sembra di immergersi nella purezza di un’aria rarefatta e poi si scopre che anch’essi sono fatti di... scotch, null’altro che un derivato da idrocarburi.
CITY landscapes: Intere metropoli di plastica, sovraffollate e sommerse dalla plastica: città fatte di idrocarburi. La città massificata e senza identità; le moderne città sono tutte uguali: un reticolo di strade senza nome, tanto il nome neanche serve! Edifici tutti uguali: altezze diverse, forme diverse, ma identità, spirito, anima... assenti. Tutta la nostra vita contemporanea è un immenso ammasso di plastica.
«Il mio lavoro consiste in sculture e grandi installazioni fatte di oggetti di consumo quotidiano manipolati. Gli oggetti sono multipli di materiali poveri come lo scotch tape, pasta di carta e gesso. Tento di giungere ad un livello di produzione di massa negli oggetti, sebbene ognuno sia fatto a mano. La maggior parte del lavoro è monocromatico, guidato per lo più dalla qualità intrinseca e dalla simbologia del materiale usato. Ho lavorato come in una catena di montaggio, tirando fuori la stessa immagine in gran quantità e cercando eventuali significati».
(Joe Davidson).