Equipèco Anno 7 Numero 25 autunno 2010
A partire da questo numero Equipèco ospita una rubrica sul rapporto tra Modernità e campo dell’arte promuovendo il dialogo tra approccio sociologico ed analisi estetica. In occasione di questa prima uscita il titolo della rubrica “Modernità e campo dell’arte” è seguito da una specifica (When Responsibilities Become Form) che richiama il titolo della mostra When Attitudes Become Form curata da Harald Szeemann presso la Kunsthalle di Berna e l'Institute of Contemporary Art di Londra nel 1969, invitando il lettore a riflettere su quelle forme artistiche di responsabilità anche sociale in un momento storico nel quale l’arte si lascia sedurre dalle tentazioni del mercato.
Le conseguenze dell’avvento della Modernità nel campo dell’arte e della cultura sono state diverse: disomogeneità e frammentazione culturale (la cultura umanistica con la sua vocazione di controcultura, la cultura tecnico-scientifica con la sua aspirazione al progresso, la cultura economico-commerciale con il suo orientamento al profitto, la cultura fondamentalista con la sua esasperata difesa del passato e così via), rigetto della razionalità a vantaggio della passionalità come incipit dell’atto creativo, autonomia dai mecenati privati ed autoreferenzialità, coinvolgimento delle masse (arte di massa versus arte d’élite, arte commerciale versus arte d’avanguardia, ecc.), importanza della concettualità e della critica rispetto alla mera rappresentazione e decorazione e così via.
Una delle conseguenze più incisive della Modernità sulla produzione artistica è sicuramente quella che il sociologo francese Pierre Bourdieu ha definito “istituzionalizzazione dell’anomia” cioè l’esistenza di istituzioni sociali in concorrenza tra di loro per la legittimità ed il riconoscimento artistico. In altri termini se prima della Modernità la concezione unitaria di arte è stata il riflesso di una diffusa omogeneità culturale, con l’avvento della Modernità non essendoci più una concezione unica ed unitaria di arte e di conseguenza di artista, il mondo dell’arte si configura sempre più come un campo di gioco o di lotta dove soggetti più o meno dotati di capitale economico, culturale, sociale e simbolico si contrappongono tra di loro per ottenere il dominio del campo cioè il potere simbolico di definire cosa sia l’arte e chi sia degno di fregiarsi del “titolo onorifico” di artista. Secondo questa interpretazione è possibile distinguere due sfere del campo: una autonoma, la cui produzione è rivolta agli altri artisti ed agli addetti ai lavori ed una eteronoma, la cui produzione è rivolta alla ricerca di consensi commerciali e profitti economici. Se nel secondo dopoguerra grazie soprattutto all’azione delle neoavanguardie il gioco era sbilanciato verso la sfera autonoma che biasimava la riduzione di un’opera d’arte, il cui valore è senza prezzo, ad un do ut des commerciale, a partire dagli anni ‘80 ed in modo ancora più sistematico negli anni ‘90 la logica eteronoma prevale su quella autonoma generalizzando una spettacolarizzazione dell’arte senza precedenti cui si collega l’esigenza sempre più diffusa di una sorta di fast food culturale che alla Cultura preferisce pillole di sapere precodificato che ricordano, per brevità ed efficacia, gli slogan pubblicitari o i messaggi racchiusi in certi cioccolatini. Di fronte alla forza di questo , percepito e vissuto come naturale ed immutabile, diventa vitale per alcuni artisti ritrovare quei principi della libertà intellettuale e culturale erosi dall’ideologia del capitalismo neoliberale promuovendo forme artistiche “di resistenza”. Ricordiamo a tale proposito la ricerca artistica di Hans Haacke, quella di Michelangelo Pistoletto e del Movimento Love Difference o quella del giovanissimo Armando Lulaj: la loro forza simbolica sta nella capacità di obbligare i media a parlare di certi argomenti sensibilizzando in questo modo l’opinione pubblica.
Spostandoci dalla produzione artistica al consumo culturale l’avvento della Modernità lascia intendere una democratizzazione dell’arte con la scomparsa della distinzione tra un’arte d’élite ed una di massa. In realtà, però, con la Modernità ed in particolar modo con quella sua fase definita da Bauman “liquida” si rafforza il ruolo delle istituzioni e della cultura d’élite. Da un lato, questo rafforzamento è dato dall’aumento di complessità e dalla conseguente tendenza alla disintegrazione della sfera culturale in una molteplicità di tendenze e discipline con la consequenziale mancanza di punti di riferimento che solo la cultura alta riesce a garantire grazie alle competenze dei suoi esperti. Dall’altro lato, invece, questo rafforzamento è legato alla mobilità ed alla stratificazione sociale, propri della società industriale avanzata, che permettono alle classi alte e medie di utilizzare la cultura come strumento di distinzione, di differenziazione, di mantenimento delle distanze da quelle inferiori. Queste riflessioni si legano in particolar modo alla ricerca artistica di Andrea Fraser o di Cesare Pietroiusti che spesso nella loro produzione hanno sottolineato i limiti della democratizzazione della cultura. Ecco quindi che di fronte ai processi di economizzazione e banalizzazione della sensibilità artistica la sfida sta nel lasciare che la responsabilità prenda forma contrastando non solo i processi di colonizzazione del campo artistico da parte di forze ad esso estranee ma anche sostenendo e difendendo l’autonomia del pensiero e della ricerca artistica.
Per saperne di più:
Pierre Bourdieu (1992), Les règles de l’art. Genèse et structure du champ littéraire, Paris, Seuil
www.francosoffiantino.com
www.lovedifference.org
www.paulacoopergallery.com
www.pensierinonfunzionali.net
www.petzel.com
Raffaele Quattrone, sociologo e Presidente del Dipartimento Emilia Romagna dell’Associazione Nazionale Sociologi, vive e lavora a Bologna.