Equipèco Anno 8 Numero 28 estate 2011
Soniche Vibrazioni Computazionali
Siamo abituati a vedere la tecnologia come il mezzo per raggiungere un fine. Tuttavia, se da un lato la consideriamo un semplice dispositivo per risolvere problemi, allo stesso tempo la carichiamo di simbologie, aspettative e paure. Ma mentre eravamo impegnati a cercare di definirla, è successo qualcosa che ha cambiato le carte in tavola, modificando per sempre lo scenario: tecnologie ed esseri umani sono diventati intimi. Con l’avvento dei personal computer, e poi con la miniaturizzazione dei circuiti elettronici - per non parlare di protesi e biotecnologie - abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con le macchine a un livello diretto ed empatico: sono entrate a far parte della nostra vita quotidiana, modificando i pensieri, i gesti, le abitudini, mediando i rapporti interpersonali.
Questa mutazione, passata a lungo inosservata, è invece fondamentale per comprendere quanto sia problematico oggi definire un confine tra naturale e artificiale; quanto i nostri corpi e le nostre menti siano inestricabilmente legati al linguaggio digitale, filtro concettuale e principio guida della contemporanea visione del mondo. L’arte elettronica – per usare un’etichetta poco precisa ma utile a definire il contesto – è stata fondamentale per analizzare e raccontare queste complesse relazioni: tra analogico e digitale, organico e inorganico, naturale e tecnologico.
Nel caso delle opere di Roberto Pugliese, la macchina – e più nello specifico, il software – diventa un dispositivo al servizio della vita. Un sistema per catturare le energie della natura e canalizzarle all’interno dell’opera d’arte, che diventa così un oggetto vivo, mutevole, imprevedibile. Ma lungi dallo smaterializzarsi, un processo che spesso attiene all’arte tecnologica, l’opera manifesta prepotentemente la sua fisicità ed esprime una qualità scultorea, quando non addirittura monumentale.
È il caso di Unità minime di sensibilità (2011), una grande installazione interattiva sonora. Un’interattività che in questo caso non è con lo spettatore, che fruisce l’ambiente sonoro senza poterlo determinare, ma con la natura stessa. Un sensore posto fuori della galleria registra, infatti, dati come la luce, l’umidità, la temperatura, la pressione atmosferica e li invia, tramite una connessione senza fili, a un computer. Un software trasforma queste informazioni in suoni, simulando dei circuiti oscillatori e producendo così onde sinusoidali, le forme d’onda minime ottenibili in campo audio. Nello spazio espositivo, centinaia di speaker sostenuti da lunghi cavi - un nero salice piangente - trasportano le variazioni dall’esterno all’interno, rendendole percepibili e di fatto trasmutandole. Il linguaggio digitale, infatti, pur semplificando e frammentando la complessità e la continuità dei processi naturali, permette quella che l’artista americano Robert Mallary definì, già negli anni Sessanta, «la traduzione tra differenti forme di energia» (transductive art).
In Critici Ostinati Ritmici (2010), invece, l’opera non si limita a evocare formalmente la natura, ma la include al suo interno, utilizzando un tronco di albero cavo come interfaccia. Sul tronco sono fissati dei solenoidi che, sollecitati da un impulso di corrente, lo traducono sonoramente in un click. Il software che controlla questi impulsi è collegato, tramite internet, a una statistica che ci aggiorna in tempo reale sullo stato della deforestazione a livello globale. A ogni click che sentiamo corrisponde un albero abbattuto, da qualche parte del mondo. Non possiamo vederlo, ma grazie a questa trasmutazione sonora possiamo avvertirlo, viverlo, farne diretta esperienza. Ed è una percezione dolorosa, una presa di coscienza forzata, che ci stupisce e ci mette a disagio. Attraverso la manipolazione e la canalizzazione dei dati informatici - una vera e propria linfa vitale sotto forma di impulsi elettronici - l’artista riesce a rendere presente e percepibile ciò che altrimenti avremmo potuto soltanto immaginare.