Inside Art Anno 9 Numero 85 aprile 2012
Arte & sviluppo: un binomio irrinunciabile per superare la crisi e rilanciare l’economia. A sostenerlo è un documento programmatico del Sole 24 ore che ha raccolto oltre tremila firme, tra cui la nostra. Un’idea benemerita, con qualche avvertenza.
Ha superato quota tremila la raccolta di firme promossa dal Sole 24 ore per il manifesto col quale il quotidiano rilancia l’importanza della cultura per la rinascita economica del Belpaese. Cinque i punti programmatici dell’appello lanciato a fine febbraio: una costituente per ribadire che senza cultura non c’è sviluppo; una strategia di lungo periodo; cooperazione tra i ministeri competenti (Cultura, Economia e Istruzione, tra l’altro firmatari della piattaforma); arte e cultura a tutti i livelli scolastici e, buon ultimo, intervento dei privati nel patrimonio del paese, per favorire appunto lo sviluppo di una cultura diffusa. Un’iniziativa benemerita, come segnala l’alto gradimento ottenuto tra i sottoscrittori – operatori culturali, intellettuali e qualche ministro – tra i quali la nostra testata, alla quale non si può che plaudere. Una sollecitazione volta a ribadire come, contrariamente a una certa visione della politica secondo cui con la cultura non si mangia, non solo si afferma il contrario ma si vuole sottolineare che senza di questa nessuno più potrà sfamarsi, nel nostro paese come nel resto dell’Occidente (ancora) consumistico, dove il capitale maggiore non sono più i beni, ma la circolazione delle idee.
Una valutazione, questa, forte dei dati statistici che indicano come l’Italia, che da sola possiede oltre i due terzi del patrimonio storico artistico mondiale, sia assolutamente incapace di farlo fruttare. Due dati su tutti: nel dibattito sollevato si lamenta come l’insieme dei musei italiani fatturi poco più del solo Moma di New York (circa 40 milioni di euro l’anno) e la metà dei circa 37 milioni di visitatori annui nel nostro paese vedano solo 8 grandi musei. Sicché, un settore che si vuole strategico quale quello delle aziende che operano nella cultura e nell’industria creativa occupa a malapena 500mila addetti, la percentuale più bassa d’Europa. Di qui la richiesta, a gran voce, di liberare il settore dalle pastoie che rendono difficile e antieconomico l’intervento dei privati per mettere in valore le risorse non sfruttate. Non più sussidi ma maggiore competitività, alla luce di quella che appare la panacea d’ogni male contemporaneo: liberalizzare.
Fin qui, niente di nuovo. Stupisce, semmai, il colpevole ritardo della politica – del sistema paese, diremmo con pessima frase fatta – nell’affrontare con logiche economiche e moderne il tema che l’iniziativa del Sole rimette nel piatto. Ciò detto, alcune perplessità. Vediamole. Al di là degli esiti d’ogni liberalizzazione – il più grande equivoco della storia, dai tempi della nascita del cristianesimo – colpisce come l’appello allo spirito critico che la scuola dovrebbe favorire, insito nel manifesto, sia sottoscritto dagli stessi membri della compagine governativa che reclama mazzate verso ogni dissenso, dai no Tav fino ai fantasmi sindacali. Tali quisquilie a parte, l’idea che a un certo punto, smessa di produrre ricchezza reale, si passi sic et simpliciter a fare altro, si scontra col tracollo dell’economia reale. Ammesso che ciò riesca, il gioco delle tre carte a un certo punto finisce e il banchetto va all’aria, come ben sa chiunque non arriva a fine mese e non sa, né può, ricollocarsi altrove.
Ma è davvero possibile una crescita dell’offerta culturale avulsa dalla crescita economica strutturale? Non andiamo a confinarci, nella migliore delle ipotesi, nel ghetto di produttori di servizi culturali, persa ogni capacità produttiva? Non rischiamo d’essere una Venezia del futuro, estesa dall’Alpi all’Etna, incapace d’essere alcunché tranne che un paradiso dei flussi turistici a macchia di leopardo? E ancora, se la cultura è espressione di un patrimonio anzitutto economico o, per dirla come certi pensatori d’antan, è espressione del sistema dominante, come pensare che la crisi sia meramente economica e non coinvolga invece le basi della nostra cultura occidentale, vale a dire consumistica e – si passi il termine – capitalistica? O, piuttosto, si debba smettere di pensare a uno sviluppo sostenibile e passare a una decrescita, più equanimemente sostenibile? Farlo prima che, a furia di guerre infinite, si torni all’età della pietra? Comunque vada, abbiamo segnato di classicità e rinascimento la storia del mondo, in un momento in cui barbari e invasori passeggiavano tranquilli sulla nostra pretesa superiorità culturale. Che una rinascita sia ancora possibile, è questione che non tocca solo acchiappanuvoli e vendifumo, ma ciascuno di noi. In tal senso, il rapporto del governatore di Bankitalia Visco che denuncia nell’80% degli italiani tra 16 e 64 anni un’insufficiente “competenza alfabetica funzionale”, vale a dire che non padroneggia la propria lingua, figurarsi altre come il pur osannato inglese, non fa ben sperare. Un manifesto può servire, a patto che alle orazioni seguano le azioni, e si capisca che fare e dove si va.