Inside Art Anno 9 Numero 89 settembre 2012
Siamo la caduta di molti sogni, non resta che affrontarli
Il tema trito e ritrito della crisi della modernità nasconde una circolarità, una ridondanza. Infatti crisi significa in realtà separazione, lacerazione. Ed anche: momento culminante di una malattia. E, a sua volta, modernità deriva dal latino modo: finora, ma non più. Di modo che la modernità, che discopre al tempo stesso la coscienza e la sua rottura, che conosce quindi se stessa in quanto coscienza storica e pertanto finita, mortale, non consiste in altro che in separarsi. Ma separarsi, da cosa? Forse dal Medio evo, o dall’Antico? [...] E tuttavia, non solo nel nostro corpo (questo corpo che essendo rovina – vale a dire, pura perdita – terrorizzava sant’Agostino), ma anche negli artefatti rifiutati, negli utili ormai inutili, nei nostri scritti anteriori, riletti a volte col timore e il pudore di scoprire in essi quell’altro che ugualmente ero io: avvertiamo in essi un’ombra d’inquietudine che monta dalle viscere come una marea. Un’inquietudine simile a una lieve brezza velenosa che sussurra: non è che ti manchi qualcosa per metterti in salvo, non è che tu abbia dei difetti, ma il fatto è che tu stesso sei infermità (infirmitas: mancanza della fermezza di un fondamento), tu stesso sei una collezione indefinita di mancanze e difetti. Mancanze e difetti, non di qualcosa di presente (o constatabile a partire da qualcosa che è presente), ma di ciò che non è mai stato, né potrà più essere. Ciò di cui sentiamo la mancanza sono progetti di vita, illusioni spezzate e a volte mai nate: ciò che sarebbe potuto essere. Non si decade mai da una situazione stabile e preesistente. Al contrario: siamo la caduta di molti sogni. […] La scienza, la tecnica, il diritto (insomma, la “civiltà”) fanno onestamente quanto possono per sviare il nostro sguardo da questa rovina, da questa perdita che siamo noi stessi. Lenitivi del dolore, si ripartiscono bene o male l’immenso vuoto lasciato dall’ombra del Dio morto (e il Dio cristiano è, per la terra e dalla terra, da sempre un Dio morto: di lui ci resta solo un sepolcro vuoto e la promessa di un ritorno). E sta bene così. Diversamente, la vita diventerebbe insopportabile. Se non possiamo essere tutto, a cosa vale essere qualcosa? Finché non ci renderemo conto, ancora una volta, che questa totalità sacra è fatta dei gironi dei nostri desideri incompiuti, dei nostri desideri non solo inconfessabili, ma sicuramente, nella loro maggioranza, inconsci e inconcepibili. L’arte e la fondazione della politica custodiscono questa integrità di spoglie e rifiuti. Essi non aprono la breccia del possibile, per permettere l’avanzata non si sa bene verso dove. Al contrario, mantengono la custodia dell’impossibile. La fine dell’arte, sancita da Hegel, costituisce in verità l’espansione irresistibile e planetaria dell’arte, solo che non più come un simbolo di concordia, di perfetta fusione tra forma e contenuto […] né tantomeno come un simbolo inconscio. […] La nuova che adesso si diffonde, come il lezzo dolciastro di un cadavere, e che non è mai esistito un tale simbolo, ma solo simulacri del suo sogno plurale. […] Se le cose stanno così, allora cominciamo a intravedere che la crisi della modernità è la modernità come crisi, e che il suolo d’Europa è composto dai rottami dei regni e degli imperi che ebbero la pretesa di fermarla. Dopotutto, l’Occidente è il luogo in cui tramonta il Sole: la terra dell’occaso, la terra che è occaso. […] Il moderno si conforma dipingendo artisticamente il demonio sulla parete, affinché rimanga lontano: senza considerare che tale pittura è già il demonio. È troppo tardi per rendere grazie a servigi in altro tempo prestati. È già qui il demonio, ma come spettro (non è mai stato altro: solo che adesso noi, contemporanei di tutti i tempi e di tutte le epoche, finalmente lo sappiamo). […] Ma poi, cosa ci resta? Ci resta da affrontare il sogno, in quanto tale.
Félix Duque e’ docente di filosofia
da Geni, dee e guardianicortesia Edizioni scientifiche italiane