Dal fluido al vuoto
Pier Luigi Tazzi
Intervista di Orietta Berlanda
In che modo, secondo lei, le caratteristiche dell'arte delle ultime generazioni, sono diverse da quelle degli artisti degli anni Novanta?
Rispetto agli anni Ottanta la differenza è molto profonda. Negli anni Ottanta si consuma la fine di una visione estetica che si era originata alla fine del Settecento ed aveva attraversato tutto l'Ottocento, le avanguardie e i vari sommovimenti del Novecento. Essa si fonda sulla forma, cioè un artista attiva uno statuto di "realtà" solo nel momento in cui essa appare attraverso una forma. La grande differenza rispetto all'arte degli anni Ottanta sta nel fatto che gli artisti delle nuove generazioni presuppongono una "realtà" che sta al di là della forma e del suo apparire.
Per quanto riguarda gli anni Novanta è più difficile tracciare una differenza per via della continuità con il presente. L'arte degli anni Novanta è vissuta sotto il segno del dubbio della critica e della ricerca, e spesso queste categorie sono sfociate in manifestazioni estremamente vistose e spettacolari.
Si è tornati addirittura a parlare di veri e propri trend. Fra trend clamorosi che hanno occupato le pagine dei media c'è stata la giovane arte inglese con il suo capo carismatico Damien Hirst. Oggi il bisogno di saltare sul grande carro immaginario della cultura dominante si sta affievolendo; gli artisti sono meno ambiziosi in questo senso, mentre lo sono maggiormente in un altro senso, quello del volersi rapportare direttamente alla realtà storica del momento, alla loro esperienza del mondo oltre alla visione che viene offerta loro dai media.
Quale è oggi il rapporto degli artisti con la realtà sociale?
C'è un duplice rapporto. Da un lato ci sono artisti che provengono da situazioni di guerra e di conflitti sociali che hanno prodotto ferite profonde, tutti fatti che la coscienza europea aveva allontanato, se non addirittura rimosso.
Tra questi troviamo artisti del Kosovo, Irlanda del Nord, o di paesi in cui sono ancora molto forti i conflitti sociali, come gli Stati Uniti d'America dove è ancora vivo il problema del rapporto tra popolazione bianca e di colore o tra gli statunitensi che occupano il territorio e i nativi che sono assenti. Artisti come Jimmy Durham che ha un passaporto americano pur essendo di nazionalità Cheeeroky, o come l'aborigena australiana Tracey Moffat, mettono l'accento sulla discontinuità della storia e su fatti che la storia ufficiale vorrebbe cancellare.
Altri artisti provengono dalle ex colonie come il camerunese Pascale Marthine Tayou; oggi si assiste ad un pullulare di artisti che provengono dalla Thailandia come Rirkrit Tiravanija. Tutti questi artisti portano avanti nella formalizzazione della loro opera contenuti legati alla cultura e alla storia dei loro paesi d'origine, spesso caratterizzata da guerre, da conflitti sociali, dall'isolamento culturale, dalla marginalizzazione. Questi elementi mettono in rapporto tra l'arte con il sociale quest'ultimo inteso in senso negativo, come catastrofe, pericolo, guerra, fine della storia. Si tratta della "realtà", citata prima, che si fa vedere al di là delle forme.
Da un altro lato ci sono altri artisti, alcuni provenienti da questi stessi territori, che ci si sono formati all'interno del contesto europeo e nord-americano, e che mettono in rilievo aspetti positivi della vita e dell'esperienza del mondo come la felicità, la gioia, l'aspirazione al piacere. Tutto questo trasferito a livello individuale e filtrato attraverso un linguaggio che riguarda più il sociale che la sfera personale.
Oggi non c'è più posto per un individualismo esasperato o per l'isolamento nella personale solitudine, quando tutto passa attraverso la cultura dei media che sono tramite ed espressione di questi sentimenti e di questa dimensione.
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