Juliet Anno 20 Numero 108 maggio/giugno 2002
L'Arte sfoga all'interno del proprio contesto storico e si crocifigge nelle opere. Non bisognerebbe mai riproporre il passato come supremazia sul presente. La classicita' ha bisogno di nuovi tessuti, stimoli, eccitazioni. Nuovi riavvii precostituenti il pensiero contemporaneo, nuove ossa per non occludere e far seccare in se quanto ci tocca per generazione rinvigorire o rianimare.
Qui si dice nuovo Barocco, prendendo in prestito il termine e il concetto scatenato da Omar Calabrese, ma anche leggerezza e ironia, gioco che intende trasfusione sanguigna per rianimare l'euritmia cardiaca della visionarietà artistica. Dalle città non nasce molto. Piuttosto le periferie attraverso conservatorismi, a volte naturali a volte imposti, sono succulenza preziosa e gli artisti di questi posti, sono concreti rianimatori viventi del genius loci caro ad alcuni pensatori. Adesso, per forza o per amore, questi artisti, vengono in soccorso, come nel modernismo l'arte africana, a un europeismo illuso e ipnotizzato dal modello statico dell'americanata e dal francesismo rinascimentale nostrano. Una punta conficcata con forza di altri, nel costato della cultura artistica mondiale.
Ironicamente alcune presunzioni storiche danno l'idea scioccante di quanto sia succinta la contemporaneità e il nostro tempo comunicativo, quanta la nostra dovuta consapevolezza la qualità metamorfica della complessità storica che ci tocca vivere. Gli artisti ellenici crearono sembianze di eroi e di dei pagani con materiali terresti e marmorei. Il medioevo cristiano schizzò cattedrali e opere pittoriche che celebravano i simboli divini. Dalla borghesia il mercato. Adesso la politica. Come Celli narrava agli esordi della sua poesia, prolegomeni intorno all'uccisione del Minotauro, ogni essere organico vive secondo la propria realtà, nel mondo dei mirmecologi troveremo solo una realtà vista secondo la prospettiva delle formiche di cui conosciamo poco gli istinti organizzativi e costruttivi. Da loro come da noi, adesso, le opere trascurano il valore estetico.
Sappiamo però che la creatività ha un codice perfetto, una trasmissione amorosa di stimoli tra la forma che si fa costruire, come in Burri, dalla sua materia, e l'atto biologico che la costruisce. Sappiamo che il labirinto è una facoltà di scelta, un piacere o un terrore secondo la passione del vivere. Il Minotauro in tutti modi è una vittima.
Noi siamo consapevoli di aver relegato l'arte alla serialità, alla minuziosa ripetizione di sé stessa giocata dietro la schermatura di una filosofia soffocante che a volte avanza presunzioni epistemologiche con l'intendo di darci il colpo finale.
Nino Barone opera nella ricerca con spirito emanante. Trasforma quanto ha avuto da dichiarare il mezzogiorno artistico italiano negli anni settanta/ottanta, con la vivacità di un segno contemporaneo premonitore all'idea di leggerezza istintiva a discapito della soffocante ripetizione. È una forma d'arte fausta che esorcizza naturalmente i tentativi fallimentari della prova ed errore che ci ricaccia nella sbudellata luttuosa e Saturnina maniera di sottoporsi per amor kamikaze all'artiglieria dell'informazione disinformante nel riciclaggio continuo di sé stessa. Tanto nel sociale, con veri protagonisti esclusivamente rappresentanti di sé stessi, generazioni con il terrore dello specchio caro al Parmigianino, invecchiate nei tubi catodici con l'arte della medianità e della propria esclusiva rappresentazione. Un mondo che respira non può appagarsi con queste immagini. Il genius loci molisano guarda all'essenzialità.
Dall'arte povera respirata nella cultura industriale piemontese della F.I.A.T. all'arte occultata nelle maglie della F.I.A.T. molisana che ha nella sua stessa morfologia la texiture della trasformazione. Un'idea antica del mondo agricolo improvvisamente esploso (in un decennio) in stile industriale. Tanto era nella visione dichiarante del "Gruppo Solare" di Nino Barone. Un'idea della forma scatenata dal senso urgente del recupero, dall'immediatezza abbagliante della metamorfosi che stabilisce in un breve giro di tempo l'adattamento di un'antica cultura agricola alle nuove e sperimentate maniere industriali. È per certi versi la ricerca dell'arte che recupera quanto resiste, per sua natura, nella cultura di un territorio in trasformazione. Capace di sottrarsi da quanto nello stesso territorio arriva improvvisamente con il gusto dell'imposizione e del colonialismo nostrano. Si tratta della forma che rinvigorisce la visionarietà sannitica con l'impegno dell'arte locale, meno a nessuno se non ad un inqualificabile vizio dell'informazione nazionale di relegare la periferia dell'impero industriale e politico, all'ombra delle città che adesso esalano l'intossicazione di un processo culturale preannunciato scadente e con un tenore vitale neanche tanto lungo. Meno di un secolo. Nino Barone sintetizza nei Geocartoon tutto il processo vivace rimasto occultato per anni nelle maglie dei riconoscimenti locali e della provincia. L'energia che adesso muovono le sue opere sono necessarie per il sostegno a quanto si è abbandonato nelle reti sintetiche e nelle fibre storiche che per naturale presenza tornano nella duplice funzione di testimonianza della verità e verità dell'arte altamente rinvigoritrice del nostro sottile stato d'essere...
Nella sua ricerca Nino Barone trova il punto fermo di un'arte archetipale che dichiara di considerare il presente come sostanza conclusiva del passato, un punto cosmico che regge ciò che è stato con quello che dovrà essere e che si realizza sincronicamente nel segno. Una sintesi contemporanea della domus aurea, trasformata quasi in maniera entomologica in un segno comune all'immaginario collettivo e che ritrova i suoi aspetti portanti nella cartografia, nella mappatura ideale quasi fosse un filo ironico di Arianna saggia che guida la geometrica istintiva del nostro tempo tra le ipotesi ludiche del nuovo mondo visivo appena scoperto e manipolato...
Antonio Picariello