Juliet Anno 20 Numero 111 gennaio 2003
Patrizia Ferri: Nel tuo libro "Il suicidio dell'arte" fai un ritratto piuttosto crudo di quella che secondo te è la situazione dell'arte attuale, giungendo alla conclusione che essa stia lentamente e inesorabilmente suicidandosi con le proprie mani e che in fondo non sia che "l'oppio brodo star dei popoli cosidetti evoluti". È una condanna senza appello...
Pablo Echaurren: Sì, ma non sono il solo a pensarlo. Non c'è dubbio che l'arte si sia sostituita al crocifisso: non c'è sala di riunioni di una grande azienda che non ne sia dominata, non c'è impresa che si rispetti o Banca che non sia punteggiata da opere d'arte alla moda. Un quadro astratto al punto giusto dà il tocco, l'imprimatur, determina il grado di cultura, è il potere economico che si mostra aggiornato e ripulito, col suo volto buono e intellettuale.
Quindi l'arte è l'oppio brodo star tanto quanto il danaro, ne è l'altra faccia: se da un verso della moneta troviamo il serpente con le due sbarrette (il segno del dollaro rappresenta il passaggio delle Colonne d'Ercole da parte di Cristoforo Colombo), dall'altra parte c'è un incrocio di linee alla Mondrian, testa e croce.
Che l'arte si stia suicidando è evidente dalla quantità dilagante di vacuità, dalla copiosità di nullità rivestite di supponenza, si vedono e si sono viste molte cose che sono assai più simili alle vetrine dei grandi magazzini che ai capolavori imperituri dei maestri del colore: quando penso agli assemblaggi di fascine stile Merz mi viene in mente la Fiera del Bianco autunnale di un qualsiasi grande magazzino, sai quelle belle composizioni che ti danno il senso del rurale, del frugale, una fascina secca, foglie sparse con eleganza, una pentola con le caldarroste, un tovagliato in offerta speciale, insomma un bell'allestimento, ma niente più. Se questa fascina me la porto a casa, cosa me ne faccio? E se proprio ne sento il bisogno allora perché non andare in campagna, che bisogno c'è che sia firmata?
Come vedi non mi riferisco solo ai giovani rampanti, ma a molto di quanto si spaccia per opera d'are. Non parlo di tutto, ovviamente, ci sono anche lavori che mi piacciono moltissimo, ma il punto è che c'è molto snobismo teso a riconoscere a priori profondità a ciò che alla fin dei conti non è che pura superficie e questo snobismo fa parte del gioco complessivo che deve portare il prodotto al mausoleo, che lo deve rendere feticcio. Sono convinto che Duchamp quando metteva i baffi alla Gioconda facesse un'operazione molto più cabarettistica di quanto si creda e si voglia far passare per meglio museificare. Sono convinto che il suo celeberrimo orinatoio firmato R.Mutt, che in America è come dire da noi Carrara&Matta o Richard Ginori -cioè la sigla di una grande casa di cessi- fosse una sorta di goliardia nei confronti della giuria cui veniva sottoposto.
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P.F.: Ma allora, oggi, essere artista, che cosa può significare?
P.E.: Oggi, ci sono diverse situazioni curiose e degne di attenzione che provengono da mondi mai sfiorati dall'ufficialità delle istituzioni e delle grandi manifestazioni, realtà che vivono a parte, in nicchie. Pensa alla gastronomia, quello che oggi tira di più è quel tipo di cibo che stava scomparendo, prodotti residuali come il formaggio di fossa, il lardo di Colonnata, ormai li falsificano perfino. La nicchia non è più una vergogna, una gogna.
Nell'ambito della creatività tutte quelle derive che non si assoggettano al modello dominante, al sistema dell'arte, vengono sistematicamente schiacciate e ignorate, rimosse.Qui invece c'è una grande ricchezza, per i giovani e non solo, c'è la possibilità di andare oltre l'artista che fa il quadro da esporre e vendere in galleria, e immaginarsi percorsi lavorativi innovativi che creano nuove identità, nuove realtà, nuove autonomie, estranee ai meccanismi oliati e preconizzati da Bonito Oliva.
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P.F.: Ritornando a te, il tuo eclettismo ti ha dato la possibilità di essere molto noto anche in senso orizzontale, cioè al grande pubblico dei non-addetti-ai-lavori, al contrario di artisti che rientrano nei clichè di cui parlavamo.
P.E.: Certo ma questo conta fino a un certo punto, sopratutto perché siamo in Italia. Fossimo, che so, negli Stati Uniti questo dato di fatto corrisponderebbe anche ad altri vantaggi, intendo di portafoglio, sarebbe considerato un pregio. Da noi "nazionalpopolare" ha un'accezione negativa, corrisponde all'immagine di Pippo Baudo, e non a quell'imperdibile profumo di happy few, di scena elitaria dove tutto è all'insegna della misteriosofia, delle ultime parole fumose.
Al pubblico non resta che chinare il capo e assentire e chi eventualmente dovesse fare un sacrosanto pernacchio viene dipinto come una copia spregevole dell'Alberto Sordi di "Vacanze intelligenti", cioè come un poveraccio fuori dal mondo, incapace di capire, di apprezzare, di assaporare
P.F.: Il tuo rapporto con il sistema mi sembra chiaro, ma approfondiamo su quello con la critica anche se leggendo il capitolo "Il sonno della ragione genera mostre" del tuo libro uno se ne fa un'idea. Ma non salvi proprio nessuno?
P.E.: Naturalmente ho un buonissimo rapporto con la critica che mi vuole bene, ottimo con la critica qui di fronte a me, con la critica al singolare, mentre con quella in generale ho un pessimo rapporto ma non per causa mia. Non sono un settario ma quello che ho visto in tanti anni e che continuo a vedere, mi comunica la sensazione che sia un mostro che schiaccia la creatività al fine di alimentare se stesso. Quella "catena di sant'Antonio" che a Bonito Oliva piace tanto, a me dispiace moltissimo.
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