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DROME magazine Anno 2 Numero 5 settembre-novembre 2005



Il gioco

Domenico Quaranta

Out of the Screen



arti/culture/visioni
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Chaos Computer Club, Blinkenlights, 2001

Mauro Ceolin, My Name is Julie I'm new :), 2005

Il primo videogioco della storia risale al 1958, si chiama Tennis for Two e, ovviamente, non nasce come videogioco. Poi venne Pong (1972), e da quel momento l'industria videoludica non si è più fermata. La generazione che oggi ha tra i 20 e i 35 anni con i videogame ci è cresciuta. Per lei, Super Mario ha rappresentato ciò che Superman è stato per i loro genitori. I game studies sono una disciplina scientifica affermata e prolifica, e sono sempre più numerosi gli studiosi disposti a giurare sui loro Penati che i videogiochi sono una delle chiavi di lettura più efficaci del nostro tempo. Frattanto, l'industria videoludica guida a marce forzate l'evoluzione dei nuovi media, imprimendo il suo marchio sui modi in cui comunicheremo e organizzeremo la nostra vita in futuro.
Dovremmo rassegnarci a considerare l'arte un’attività completamente fuori dal tempo se non riuscissimo a rintracciare in lei alcun segno di questa rivoluzione culturale. Per fortuna non è così, e se da un lato i videogame stanno imponendo i loro modelli narrativi e le loro estetiche ad altri settori dell'industria culturale, dal cinema alla letteratura, dal fumetto alla musica, dall'altro la sperimentazione più avanzata non si sottrae a un confronto che le viene quasi naturale, se non altro per motivi generazionali.
Il dialogo con l'orizzonte videoludico procede, inizialmente, su un duplice binario: quello delle installazioni interattive e della rielaborazione pittorica delle estetiche del videogioco. Verso la metà degli anni Novanta alcune case produttrici, fra cui la ID Software, rilasciano online i codici sorgenti di alcuni dei loro giochi più famosi, ed esplode il fenomeno delle patch: "pezze" di codice introdotte dagli utenti che intervengono per lo più a livello di interfaccia, con un make-up che arriva spesso a togliere al gioco ogni funzionalità. Nel frattempo, la Rete comincia a offrire una serie di strumenti di game design semplici ed intuitivi, che permettono agli artisti di bypassare i colossali costi produttivi delle case di produzione e di prodursi da soli i loro giochi: e il videogame diventa strumento di critica sociale, attivismo politico, ma anche solo un mezzo nuovo per raccontare storie.
Parallelamente a questo lavoro sul gioco, tutto interno al suo spazio poligonale, altri artisti hanno cercato di portare i videogame fuori dallo schermo del computer, per farne video, scultura, installazione, performance e, perché no, architettura. Partiamo proprio da quest'ultima, se non altro perché Blinkenlights, il game urbano del Chaos Computer Club, ha ottenuto una visibilità che può aiutare ad introdurre esperienze meno note. Tra il settembre 2001 e il febbraio 2002, il collettivo hacker berlinese ha trasformato la facciata della Haus des Lehrers, che si affaccia su Alexanderplatz, in un display a bassa definizione in cui ogni finestra è un punto di luce su uno schermo a 18 x 8 pixel. Lo schermo alternava diverse animazioni, che potevano essere interrotte da chiunque per giocare a Pong, usando il proprio cellulare, sulla facciata dell’edificio. Bassa definizione e retrogaming disegnano anche l'orizzonte del francese Invader, che utilizza le tessere del mosaico per disseminare negli angoli più improbabili delle città del mondo i mostriciattoli dell'arcade Space Invaders. Se Blinkenlights trasforma la città in una piattaforma di gioco, le sue Urban Invasion la traducono in uno spazio navigabile, in cui scoprire l'inaspettato attraverso un aggiornamento della deriva situazionista.
Dalla dimensione urbana si passa a quella, intima e privata, della miniatura. Mauro Ceolin, che ha ritratto gli spazi dei videogiochi come paesaggi reali, e ha trasformato in sacre icone i loro autori, nella serie Cartdrige Dreams (2005) innesta gli elementi dei robot da modellismo su vecchie cartucce della Nintendo, uniformando il tutto al grigio della cartuccia, e conferendogli al contempo, con lo stesso procedimento, la nobiltà di una scultura. L'assemblaggio regala a questi inerti fantocci un cuore software, conferisce realtà all'immaginario che le cartucce racchiudono, e infine dona agli elementi di un culto privato (quello del modellismo e delle vecchie piattaforme di gioco) gli attributi di un culto collettivo (quello dell'arte). Diverse le intenzioni dell'americano Brody Condon, che con 650 Polygon John Carmack (2004) ha voluto erigere un monumento al celebre programmatore della ID Software. Un monumento, beninteso, poligonale, non diverso dal mondo che il ritratto ha contribuito a creare.
Condon condivide con l'amico Eddo Stern il merito di aver tentato, per primi, una traduzione performativa dell'universo videoludico. Israeliano (ma residente a San Francisco), Stern è anche l'autore di alcune sensazionali installazioni ispirate al neomedievalismo dei giochi di ruolo multiplayer online. Le sue macchine, riunite sotto il nome collettivo di GodsEye, rivestono di un immaginario techno-fantasy dei sapienti riassemblaggi delle componenti tradizionali di un normale PC. Particolarmente impressionante è Fort Paladin (2003), in cui 4 torri, uno schermo al plasma e una tastiera sono ridisegnate in un elaborato castello medievale, con tanto di merletti e monofore, che attraverso un complesso ma elegante sistema di pistoni si gioca America's Army, il game creato per l'addestramento dei soldati americani, denunciando con sarcasmo i toni da crociata che accompagnano le guerre del XXI secolo.
Performance e scultura si ricompongono nella Painstation creata dal collettivo tedesco Fur (Volker Morawe e Tilman Reiff) nel 2001. Utilizzando il buon vecchio Pong, la Painstation dimostra il masochismo sotteso a ogni gioco trasmettendo una piccola scossa elettrica alla mano del giocatore ad ogni suo errore: anticipando, in questo modo, una delle probabili evoluzioni dell'intrattenimento videoludico, quella delle arene clandestine descritte in Skill, l'ultimo romanzo di Alessandra C.
Difficilmente si potrebbe trovare, per chiudere questa parzialissima rassegna, qualcosa di più azzeccato delle installazioni di mobileskino, una crew di quattro artisti svizzeri fondata nel 2000 con l'intenzione di lavorare sul cinema e i suoi linguaggi. Come si è detto all'inizio, il cinema è forse il medium che più sta subendo l'influenza dell'industria videoludica. Per il momento, tuttavia, questa influenza non riesce quasi mai a raggiungere le sue strutture linguistiche e narrative, fermandosi a un livello abbastanza superficiale. The Game Arcade (2003 – 2005) è una serie di quattro installazioni che mettono a confronto analogico e digitale, narrazione cinematografica e interattività. Il risultato sono degli ambienti di gioco generati da pellicole 8 mm e proiettori di diapositive, con cui si interagisce attraverso pulsanti, giocattoli e sensori: una sorta di macchinosa e affascinante scatola magica del nuovo Millennio, da osservare con lo sguardo stupito che riserviamo a un'arte ai suoi albori.

Blinkenlights - www.blinkenlights.de
Urban Invasion - www.space-invaders.com
Mauro Ceolin - www.rgbproject.com
Brody Condon - www.tmpspace.com
Eddo Stern - www.eddostern.com
Painstation – www.paistation.de
Mobileskino - www.mobileskino.ch