Titolo Anno 16 Numero 49 inverno 2005/2006
La coscienza dell’ossimoro
Verrebbe da esordire questa breve riflessione sull’opera di Giuseppe Maraniello sentimentalmente, con il celebre incipit di Mogol affidato alla voce di Battisti “in un mondo che”, a sottolineare quanto il lavoro ormai più che trentennale dell’artista, apparentemente lontano da intenti sociologici, in realtà ragioni, come il verso poetico, attorno ai nodi del nostro vivere attuale e in una costante attenzione alle questioni etiche della contemporaneità. E in particolare in un mondo in cui l’individuo è scisso in molteplici direzioni; in un mondo che di fronte ai drammi dell’umanità conosce una mescidazione sempre più confusa tra bene e male, dai confini indistinguibili; in un mondo in cui il potere però — e ci piace usare questo desueto termine — ha bisogno di un male per dare senso al bene, per dargli modo di trionfare; o meglio, in un mondo che artatamente (e platealmente ormai) crea il male per fare trionfare il presunto bene, impegnandosi nel conflitto logicamente (oggi più che nel passato), l’opera di Maraniello pare avere anticipato una riflessione attorno al senso delle polarità e delle antinomie in questo confermandosi ancora “mediterranea”, nell’accezione che da sempre la mitologia ha attribuito al conflitto tra gli opposti, all’impossibilità di stabilire un confine, alla necessità di un pensiero trasversale che contenga le polarità pur senza avere la pretesa di riassumerle.
Le polarità “degli opposti che si specchiano” di cui l’opera di Maraniello è una testimonianza, pur non esaurendosi semplicemente nella sintassi dei poli, ma rimanendo sempre aperta a una eventuale lettura alternativa, al dire della critica che da sempre ha seguito il suo lavoro (da Lea Vergine, Massimo Bignardi, a Giorgio Verzotti) si configurano in molteplici partiture linguistiche, quasi per stratificazioni significanti: anzitutto riferibili ai generi stessi della pittura e della scultura, questi non antitetici ma in costante dialogo, praticati entrambi nella messa a punto di una situazione espressiva; nell’uso dei colori primari e complementari, in contrasto e reciproco rafforzamento come già nell’emblematica installazione Senza titolo, 1979, dove un elemento lineare evidenziava tre bicchieri dipinti con i colori primari e i loro complementari; le coppie antinomiche vanno estendendosi naturalmente nel corso degli anni Ottanta a polarità apparentemente più elementari tra razionale e irrazionale o nell’unione inscindibile dell’uomo e della donna, come nel dialogo tra antimateria e materia, nell’uso contemporaneo di materiali “alti” e “bassi”; nell’evidenza, in un’unica immagine, di superficie e aggetto o rilievo; nelle relative componenti di concettualità e manualità da homo faber, in un misto di spiritualità e concretezza, astrazione e figurazione, coscienza del vuoto e contrappeso del pieno.
Si tratta, è bene ribadirlo, di semplificazioni concettuali che nulla intendono togliere alla complessità delle situazioni inventate dall’artista in partiture sempre aperte a direzioni alternative, spesso necessariamente contrastanti. Si evidenzia inoltre nella parabola creativa di Maraniello, come la critica ha cercato di evidenziare, una sorta di fenomenologia dell’equilibrio con una coerenza che va dalle installazioni degli anni Settanta alle ultime sculture, pur in differenti declinazioni e in ipotesi dialogiche, entro le dualità protagoniste: equilibrio che a mio giudizio non è da intendersi nell’accezione più semplice ed evidente di una volontà di ricomposizione delle polarità, spesso giustapposte o in contrasto e in lotta, ma, nell’apparenza di una paralisi, a porre l’accento sull’ambiguità e sulla sospensione; un principio, questo, che si concretizza nella ricorrenza di alcune figure simboliche in pittura o in scultura, sulle opere o intorno ad esse, come il diavolo, l’uomo che salta, il centauro in lotta con la propria animalità, gli amanti, l’ermafrodito. Vi è chi ha letto nella ricorrenza di tali figure e nella dimensione estetica dell’equilibrio, un richiamo al “bilico” di Osvaldo Licini e alla mistica degli angeli ribelli, nell’analogia di simbolismi occulti; chi ha scorto nella partitura filiforme un’evidente infatuazione per le costruzioni poetiche di Melotti, a cui Maranello farebbe riferimento anche nell’introduzione delle calcolate figurine simboliche; o chi, come Verzotti, ha evidenziato una connessione tra le evidenti tensioni contratte o materiche e le alte dispersioni energetiche di uno Zorio, a circoscrivere un ambito di necessità nella ridefinizione dei materiali.
Probabilmente Maraniello è consapevole, come chiunque abbia delle passioni letterarie o artistiche, dell’esperienza della storia e della contemporaneità, entro cui oggi si muove però con ironia, spesso con l’intento disincantato di rifare il verso ai generi e alle opere. Si prenda, ad esempio, un ultimo ciclo di lavori di piccole dimensioni dal titolo Tueio, 2005, in cui l’artista ironicamente cita i classici generi pittorici del ritratto, del paesaggio e della natura morta, o dello stile astratto, figurativo, informale, quasi pretesti per il fare e non in funzione meramente espressiva; tutto questo senza rinunciare all’impiego dei colori primari, in opposizione e combinazione con i complementari e all’ausilio di piccole sculture in bronzo a coronamento della pittura, negli emblemi ricorrenti del centauro che è in lotta con la sua parte animale, dell’omino pensatore che pare quasi una divertita citazione del Pensatore, di Rodin: anzi, qui il gioco dei rimandi si fa più sottile per l’evidente coinvolgimento da parte dell’autore della propria storia artistica e umana, quando ad esempio i protagonisti sono alcuni disegni infantili (del figlio) riproposti in chiave pittorica e in una più raffinata tecnica musiva (micromosaico), o quando ritroviamo citazioni di opere degli anni Ottanta: così in Tueio, 2005, olio e bronzo, si scorge una evidente allusione ad Albero, 1980. Mediante l’impiego contemporaneo di pittura e scultura vi è quasi nell’ultima produzione una ironica messa in scena dell’idea della pittura e della scultura in quanto categorie acquisite.
In un dialogo recente con Massimo Bignardi, Maraniello citava a proposito del suo lavoro L’Anfesibena, un serpentello inventato da Borges che va in due direzioni opposte “caratteristica che è sempre al centro del mio fare (...) i contrari, gli opposti, li ho ricercati soprattutto nei colori; per me il colore è una sorta di diaframma. A volte preannunciava un lato, il retro, ove c’è il suo complementare. Spesso in passato bucavo le tele; ad esempio una verde, come nel caso di un’opera, per me importante, che s’intitola Il diavolo verde. Già nella dichiarazione ‘il diavolo è verde’’ io sto affermando il suo contrario, perché il diavolo nell’immaginazione collettiva è rosso” (G. Verzotti, a cura di, Giuseppe Maraniello, catalogo della mostra, Galleria Flora Bigai, Venezia, 2005, p. 135).
La componente mitica, che ritroviamo generazionalmente anche nei protagonisti della Transavanguardia, appare in Maraniello sotto forma di emblemi di cui il centauro è il più evidente, ma anche la ciotola e la lancia, il vaso, l’appello a una scultura che, come giustamente ha evidenziato Verzotti “assume a volte il pathos scenografico di un monumento funebre”. Preciserei, tuttavia, che la messa a punto di una scrittura simbolica, a volte leggera pur nel contrappeso ponderale che ne fa spesso da contraltare, sembra porre l’opera di Maraniello, come in certo senso anche quella scultorea di Paladino, in una prospettiva di ripensamento attorno all’eredità simbolista (non senza una dose di giapponismo del nuovo millennio) evidente anche nell’uso smaterializzante dell’oro, anzitutto luce, coniugato a un ancoraggio inconscio ad antiche culture mediterranee, di cui ogni tanto l’artista si compiace di mostrare il riferimento.
E il simbolo ultimo della sua scultura appare spesso afferire alla condizione umana, all’umanità stessa, come si diceva all’inizio: esempio più evidente di tale maturazione è il ciclo quasi monocromo “bianco” che occupava l’ultimo piano della Villa delle Rose nell’ampia retrospettiva dedicata all’artista nel 1993 organizzata contemporaneamente alla Galleria Civica di Bologna e in quella di Trento. Qui il bianco assoluto, dominante, in cui la forma perdeva i contorni, fino quasi a contraddire lo stesso linguaggio delle polarità, dei pesi e delle leggerezze, alludeva, incrinata apertura, a una sorta di vuoto in cui ci si trova a galleggiare, in un momento in cui non si è più toccati da nulla, nell’indifferenza e cinismo diffusi a livello mediale, quando gli eventi paiono sovrastarci senza che noi possiamo dare loro il necessario e tradizionale pondus.
La scultura di Maraniello suggerisce senza gridare, allude senza il ricorso a eccessive formule retoriche, agendo su un piano di raffinatezza che dà spazio alla nota singola, all’assolo, o al contrappunto, senza indugiare.
Da questo punto di vista anche la lezione che l’artista ha trasmesso ai suoi allievi negli anni di insegnamento di scultura all’Accademia di Brera dalla fine degli anni Ottanta ad oggi è stata sempre tesa alla messa a fuoco di un modo, di una prospettiva di linguaggio, nata anche dalla consapevolezza dei materiali e dalla sperimentazione di questi in funzione espressiva, sforzandosi di eliminare allusioni alla formulazione del proprio lavoro artistico.
Tra gli allievi che più di altri hanno assimilato la lezione di Maraniello, Alex Pinna, soprattutto nelle installazioni d’esordio come Fucked bird, 1994 (l’incudine che schiaccia Beeb Beeep) o Mi è sembrato di vedere un gatto, 1996, ma anche in Liberitutti, 1996 (l’installazione di tappeti che evoca il genio della lampada) dimostrava di aver metabolizzato la coscienza dei materiali in una mitopoiesi autonoma e disincantata, ironica e di natura mediale, mentre nelle piccole silouhettes allungate e nelle prove pittoriche, dalla fine degli anni Novanta a oggi, la sua opera, fattasi più intima, è tornata a porsi in rapporto al maestro, al punto che Ivan Quaroni ha stigmatizzato, non a torto, il suo lavoro ultimo con l’etichetta “nuovi equilibri”; Marco Boggio Sella, che ha sviluppato la propria vena ironica e surreale in una messa in scena paradossale ; Luca Bertolo, fine intellettuale, impegnato negli anni Novanta in un difficile percorso pittorico; e tanti altri artisti che hanno iniziato tra fine anni Novanta e i primi del Duemila come Davide Minuti, Simona Uberto, Alicia Erba, Yoko Miura, Wilma Kuhn, paiono accomunati da una identica passione fabrile e artigianale, non solo relativamente ai materiali, ma anche nell’ideazione del processo, nel percorso di attivazione sensoriale, nel modus operandi. Segno che l’insegnamento del maestro ha agito su sensibilità ancora ricettive a una messa a punto del linguaggio e non solo di strategie puramente manageriali.