DROME magazine Anno 2 Numero 7 maggio-luglio 2006
Erwin Olaf
Icona dello scatto provocatorio e patinato e noto animale da party, da oltre vent’anni Erwin Olaf mescola con le sue foto l’iperrealismo con l’onirico, il pop surrealism con la fotografia di moda, il kitsch col punk, l’iconografia pittorica con quella pornografica. La sua grande ossessione è il corpo, testo e pretesto per irridere, stupire, divertire attraverso le sue crudeli favole glamour.
Oggi, però, al corpo chiede ancora di più: saper comunicare senza scandalizzare.
Visivamente sofisticato e concettualmente destabilizzante, Erwin Olaf ha firmato memorabili campagne pubblicitarie per Diesel, Heineken, Lavazza, Lee, … Ma ha pure ritratto donne e uomini nudi ed eccitati con buste griffate da stilisti famosi - Chanel, Gucci, Moschino, …- al posto della testa (Fashion Victims), ha messo in scena celebri figure reali dal melodrammatico destino (Royal Blood), pin-up ottuagenarie (Mature), pagliacci lascivi e violenti (Paradise the Club), portandosi a casa anche il Young European Photographer Prize, due Leoni d'argento a Cannes, l’Award Photography Annual New York.
Nei suoi ultimi lavori – non solo fotografie, ma anche video e installazioni sonore - lo sfavillio sembra lasciar spazio alla penombra, il mostrato all’interiorità, mentre i corpi si fanno paradigmi dell’incomunicabilità umana.
DROME: Vorrei incominciare dai tuoi progetti più recenti in mostra qui a Milano alla galleria b&d, in particolare la serie fotografica ‘Hope’ e i video ‘Annoyed’ e ‘Rain’. In questi lavori non hai utilizzato i giochi erotici e i riferimenti sessuali che hanno caratterizzato una parte della tua ricerca precedente. Cosa è successo e che significato ha questa scelta per te?
ERWIN OLAF: Sto diventando vecchio! Ho sentito il bisogno di esprimermi in un modo differente, come se la mia ricerca avesse raggiunto il suo climax nella serie Paradise, che ha rappresentato al contempo l’apoteosi del party e la sua stessa decadenza. Il passare degli anni porta a cambiare abitudini, non posso più andare ai party tutte le notti, anche se continuo ad amarne l’atmosfera. Per questo, sento del tutto naturale il cambiamento di sensibilità delle ricerche più recenti, mi sento più tranquillo e desideroso di comunicare sensazioni interiori. Allo stesso tempo, voglio comunicare la mia preoccupazione per il mondo contemporaneo. Tuttavia, lo stesso anno in cui ho lavorato a Hope, ho realizzato il video e le foto di Rouge, che sono più aggressivi e giocano di nuovo su temi della sessualità. I due lavori a cui abbiamo accennato dimostrano come nella vita di ciascuno convivano nello stesso momento diverse sensibilità ed emozioni.
D: Un’altra recente serie fotografica, ‘Rain’, è stata recentemente esposta a Parigi alla galleria Magda Danysz durante la mostra “Nostalgia”. In effetti sia ‘Rain’ che ‘Hope’ sono pervase da un senso nostalgico, inscenano un tempo dilatato in cui i protagonisti sembrano sospesi in malinconica attesa. Raccontami questo sentimento.
EO: La cosa divertente è che Rain doveva essere un lavoro allegro. Volevo rappresentare un mondo felice, in particolare come reazione al dolore del lavoro precedente, Separation. Tuttavia, quando ci siamo messi al lavoro mi sono reso conto che non potevo realizzare il progetto per come era stato pensato originariamente. Rain rappresenta il momento in cui le cose si fermano, finiscono. I personaggi sono cristallizzati in una solitudine assoluta, vivono accanto ad altri in una situazione di incomunicabilità. Un grande silenzio emozionale.
Hope è stato pensato come la continuazione di Rain. Mi sembrava che quest’ultimo fosse troppo deprimente e ho voluto lavorare ad un approccio più positivo. Hope rappresenta la dilatazione del momento tra l’azione e la reazione. I personaggi sono sospesi nell’attimo prima di reagire a ciò che gli è appena accaduto. E’ come quando in una coppia uno dice all’altro che non lo ama più… ho voluto rappresentare il momento dopo questa rottura emozionale, prima della reazione.
Io credo che lo stesso sentimento di cui ti sto parlando illustri la situazione in cui si trova il mondo in questo momento. Dalla caduta delle Twin Towers, l’Occidente si trova nella dimensione temporale che ti ho appena descritto, in bilico tra lo stimolo e la reazione. Anche l’ambientazione che ho scelto per entrambi i lavori è molto importante per il senso che volevo comunicare. Le scenografie anni ’50 e ’60 simboleggiano un mondo perduto, che non esiste più.
D: Nei tuoi lavori precedenti hai spesso giocato sul tema del corpo attraverso la sessualità esplicita del linguaggio pubblicitario, in cui il corpo diviene un oggetto di consumo. Come hai affrontato il tema del corpo nei nuovi lavori?
EO: Sono sempre stato interessato al linguaggio pubblicitario e continuo ad utilizzarlo. Tuttavia, il passare del tempo e le soddisfazioni del mio lavoro mi hanno portato ad avere meno bisogno di attirare violentemente l’attenzione. L’utilizzo del corpo nell’immagine attraverso la dimensione sessuale è un modo per provocare una reazione. E’ così nella pubblicità ed è stato così per alcuni miei lavori. Adesso mi sento di dire che conosco il trucco, l’ho utilizzato e voglio andare oltre.
Sia la pubblicità che le fotografie di moda utilizzano l’immagine del corpo “gridando” per attirare l’attenzione. Io credo che questo meccanismo non funzioni più. Mi sento più portato alla ricerca del dettaglio, ad una dimensione più intellettuale. Questo non significa che il corpo non sia più protagonista, anzi. Sia in Rain che in Hope è proprio attraverso il linguaggio del corpo dei personaggi che noi comprendiamo qual è la loro dimensione emotiva. E’ attraverso il linguaggio del corpo, infatti, che i protagonisti esprimono la rigidità e la dolorosa dilatazione temporale che stanno vivendo. E’ affascinante che i movimenti possano esprimere le emozioni senza alcuna parola.
D: A proposito di movimenti, nel video ‘Rouge’ una partita di calcio è messa in scena tra personaggi dall’identità sessuale ambigua chiusi in una stanza rossa. Anche se giocano, non sembrano affatto divertirsi e comunicano piuttosto un senso di costrizione…
EO: In effetti sì…(ride, ndr)... credo che il senso di scomodità che si avverte è dovuto al fatto che i personaggi indossano scarpe con i tacchi alti. I tacchi fanno cambiare le persone. La scarpa con il tacco è un travestimento e appena indossata, sia da donne che da uomini, trasforma chi la calza.
E giocare a calcio con i tacchi alti non è affatto comodo. Come ti ho già detto, il lavoro mette in scena tematiche di genere e la rottura dei confini tra il maschile e il femminile. Io amo il gioco e la manipolazione dell’identità sessuale e credo che questa libertà vada sostenuta e difesa. In occidente talvolta non ci rendiamo conto della fragilità delle libertà che abbiamo conquistato. Il lavoro vuole quindi raccontar la vulnerabilità di tali libertà. Io sono spaventato di ciò che sta accadendo nel mondo, il radicalizzarsi delle posizioni religiose nasconde in sé il seme del fascismo.
D: Abbiamo parlato del tuo utilizzo del corpo e del linguaggio pubblicitario. Tuttavia, nel tuo lavoro ricorre l’uso di corpi molto diversi da quelli proposti dalla comunicazione di massa: le tue immagini inscenano un mondo grottesco popolato di nani, clown, corpi obesi e corpi sfatti dagli anni…letti in chiave ironica e provocatoria.
EO: : Innanzitutto bisogna lottare contro la serietà delle cose. Uno dei miei modelli immaginifici di riferimento è il party. Party selvaggi dove gente diversissima si mischia tra loro, corpi di ogni sorta interagiscono attraverso la danza, droghe e sesso. Lo chiamo “danzare sul limite del vulcano”. Amo il senso della decadenza scritto sui volti di chi esce la mattina da una festa folle che è durata tutta la notte. In Paradise portraits questo elemento decadente è molto evidente. Le maschere dei clown tutte sciolte esprimono esattamente questa decadenza dopo il divertimento senza freni. Il mio è un mondo popolato di gente di tutti i tipi, che mi piace mescolare. All’inizio del mio lavoro le immagini che creavo volevano provocare nelle persone un effetto di benessere, divertimento. Ora invece ho più bisogno di suscitare nello spettatore una reazione intellettuale. Lasciare la possibilità perché dall’immagine si sviluppi un pensiero. Questo fa parte del mio appartenere ad una fase della vita differente, in cui la passione per la “danza sui limiti del vulcano” è bilanciata da altre inquietudini ed inclinazioni.
D: Nei tuoi lavori più recenti sono disseminati “indizi”, piccoli particolari che non vengono spiegati ma che sembrano potere avere un ruolo nella storia che racconti. Che funzione hanno questi elementi?
EO: Quello che mi interessa maggiormente in questo momento è costruire immagini che non siano chiuse in se stesse. Desidero invece creare la possibilità di un’ interpretazione aperta dell’immagine e della storia che racconta. Se tutto nell’immagine fosse spiegato l’immagine sarebbe morta e il pensiero impossibile. L’apertura al dettaglio non risolto è un suggerimento che apre al pensiero, un seme narrativo che può attraversare l’intera serie creando un racconto. Spesso si tratta di dettagli gestuali: il piede inclinato della ragazza con il vestito giallo in Hopepuò lasciare intendere qualcosa della sua relazione con il ragazzo… ma cosa? Nemmeno io sono a conoscenza della storia che sto raccontando e gli indizi si costruiscono nell’immagine spesso in modo indipendente dalla mia volontà o consapevolezza. Questo dipende anche dal fatto che le mie fotografie sono frutto di un lavoro di gruppo. Utilizzo solo set artificiali in cui tutto è costruito. Ai dettagli contribuiscono quindi anche le persone che collaborano con me, come lo scenografo, il truccatore, lo stylist, …
D: La tua fotografia è da sempre impostata come ricostruzione, messa in scena di un immaginario, piuttosto che registrazione della realtà. Che ruolo hanno le tecnologie digitali in questo processo e che relazione c’è tra le serie fotografiche e i video?
EO: La cosa che amo di più del mezzo fotografico è la possibilità di mentire, di raccontare una realtà che non esiste, inventarla completamente. Per me dunque la fotografia è una bugia. Questo è ciò che mi diverte e che nutre la mia mente. Con programmi come Photoshop il processo ricostruttivo che descrivevo poco fa a proposito delle mie immagini può essere portato alle estreme conseguenze eliminando anche il set. Il computer permette di tradurre le mie immagini mentali direttamente, attraverso la giustapposizione di elementi rielaborati digitalmente. Rappresenta quindi per la mia fotografia un ulteriore passo nel distacco dal reale.
Il video, invece, è un mezzo che negli ultimi anni mi sta appassionando sempre di più, in particolare perché è più complicato e richiede una tecnica più elaborata rispetto alla fotografia. Nei miei lavori inoltre ci sono spesso suggestioni cinematografiche, ispirate in particolare al cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta. Di Fellini amo il circo di personaggi assurdi che mette in scena, mentre Visconti ha ispirato l’attenzione per il dettaglio di cui parlavamo poco fa, sia Annoyed che Rain e Hope devono infatti qualcosa a questo regista. Pasolini ha per me invece un interesse più legato all’erotismo e la sessualità. I film hanno sempre ispirato il mio lavoro e nelle mie mostre, ultimamente, combino costantemente la fotografia con il video, perché ho notato che insieme hanno un potere maggiore di influenzare le emozioni dello spettatore.