DROME magazine Anno 2 Numero 8 ottobre-dicembre 2006
Cosa scopri di uno dei più geniali artisti non contemporanei telefonandogli a notte fonda per una lunga chiacchierata. Prima dell’Ora Blu.
Nato e cresciuto ad Anversa, dove tutt’oggi vive e lavora, Jan Fabre è un artista conosciuto per il suo versatile contributo in ambito artistico. Performer, regista di teatro ed opera, coreografo, editore, autore ed artista visivo di fama internazionale, Fabre è attivo come performance artist fin dagli anni ‘70, quando metteva in scena quelle che chiamava “performance private” in una tenda nel giardino della casa dei genitori. Attraverso l’uso di fluidi organici come il sangue, l’urina, le lacrime e lo sperma, questi primi esperimenti artistici univano la passione di Fabre per il disegno all’esplorazione della corporeità, come nella performance My body, my blood, my landscape del 1978, in cui eseguiva disegni utilizzando il proprio sangue.
Con il tempo i disegni sono cresciuti in scala, fino a raggiungere le dimensioni monumentali delle opere realizzate con l’inchiostro blu della penna bic, con cui, nel 1990, ricopre un intero castello nei pressi di Anversa. In questi lavori, che lo hanno reso famoso al grande pubblico, Fabre ha unito l’amore per il disegno all’altra grande passione che ha ispirato la sua ricerca artistica: lo studio degli insetti, che racconta di avere ereditato dal bisnonno, il famoso entomologo Jean-Henri Fabre. Le opere di “bic-art” sono infatti ispirate all’“Ora Blu”, concetto usato dal bisnonno per definire il momento di passaggio tra la notte e il giorno, quando gli insetti notturni vanno a dormire e si risvegliano quelli diurni (la collezione limited edition da sei tazzine ideata da Fabre per Illy si chiama proprio “L’ora blu”). L’interesse di Fabre per gli insetti è testimoniato anche dall’uso ricorrente, nella sua opera, degli scarabei. La passione per questo animale, sfociata in una vera e propria beetle-mania, ha la sua celebrazione più grandiosa nell’opera realizzata per il Palazzo Reale di Bruxelles, il cui soffitto è stato ricoperto da Fabre con milioni di scarabei.
L’ispirazione artistica di Jan Fabre ha coinvolto fin dagli esordi la passione per il teatro, l’opera e la danza: alla fine degli anni ‘70 scrive le sue prime pièce teatrali e dal 1980 è coinvolto con successo anche in questi ambiti. Ad oggi la realizzazione dei suoi progetti teatrali e coreografici viene sostenuta da “Troubleyn”, teatro ed associazione di ricerca artistica istituita da Fabre ad Anversa. Jan Fabre è dunque un artista eclettico, che tuttavia rifiuta questa definizione, perché considera ogni campo della sua ricerca artistica come organicamente connesso a tutti gli altri; il teatro, la scultura, il disegno, la danza… sono solo mezzi di espressione differenti, che vorrebbero esprimere un pensiero artistico organico.
Riuscire ad avere un’intervista con Jan Fabre non è stato facile… ma alla fine ce l’abbiamo fatta, e l’intervista che segue è il frutto di una lunga conversazione telefonica nel cuore della notte tra Milano ed Anversa. Io e Jan Fabre ci eravamo incontrati per la prima volta due giorni prima, a Ginevra, alla vernice della sua mostra “Je me vide de moi-même”, inaugurata il 14 settembre alla galleria Guy Bärtschi; per una strana e lunga serie di contrattempi l’intervista programmata a Ginevra non è stata possibile, e così ci siamo ritrovati a parlarci a tarda notte, chiacchierando fino quasi all’alba del suo lavoro di artista ma soprattutto della sua filosofia di vita. Poco di quello che avevo progettato di chiedere a Fabre è rimasto in una conversazione rizomatica, che ha seguito vie inaspettate e connessioni non previste.
DROME: Vorrei iniziare la nostra chiacchierata con una delle opere esposte alla galleria Guy Bärtschi, l’installazione “Messagers des morts décapités”. In quest’opera forma antropomorfica ed animale si fondono; che relazione c’è nel tuo lavoro tra l’animale e l’umano?
JAN FABRE: Nell’opera c’è una mia interpretazione. Gli occhi umani e la forma antropomorfica trasformano le teste di civetta in maschere. Mi riferisco dunque al carnevale, che è un tema che ricorre anche in un’altra opera esposta, ovvero l’istallazione con i cani che apre la mostra (Le carnaval des chiens de rue morts, NdR). In quest’opera anche i cani sono delle maschere. E’ un pezzo su ciò che il carnevale significa.
D: Che valore attribuisci al carnevale? Al giorno d’oggi l’idea stessa sembra non incarnare più il suo significato originario di rottura, inversione e sospensione dell’ordine quotidiano. Il carnevale è spesso un evento spettacolarizzato, svuotato del significato simbolico originario…
JF: Sì, certo. Ma per me il carnevale ha ancora valore nella sua forma simbolica. Poiché io nei miei lavori non mi riferisco al contemporaneo ma tento di tornare indietro e riportare nel presente valori e simboli che appartengono al pensiero medievale. Per me il carnevale è ancora una festa per celebrare la carne.
D: Come può funzionare il pensiero medievale nel mondo contemporaneo?
JF: Credo che tutto il mio lavoro sia costruito intorno all’idea di restaurare i valori di un pensiero simbolico. Come dicevi tu stessa, nella società in cui viviamo tutto ha perso il suo valore, tutto è trasformato in eventi spettacolarizzati e la gente non pensa più ai contenuti reali. In Belgio, come in altri paesi, la gente vuole i cani ma poi li abbandona quando deve andare in vacanza. Nell’opera ho usato veri cani abbandonati per strada, che ho raccolto morti e fatto imbalsamare.
D: Perché proprio il cane?
JF: Perché il cane randagio, come il cane abbandonato, è una metafora dell’artista. Come per il cane, la società vuole l’artista ma nello stesso tempo lo lascia in autostrada, lo emargina.
D: Questa immagine dell’artista ai margini della società, in un tempo in cui l’arte è così profondamente istituzionalizzata e coinvolta nel mercato, è un’idea piuttosto romantica…
JF: Infatti io non sono un artista contemporaneo.
D: Però sei un artista che vive nel mondo contemporaneo.
JF: Sì, ma questo non significa che io debba utilizzare i mezzi e gli strumenti della contemporaneità. La maggior parte degli artisti usa i mezzi di comunicazione propri della società contemporanea, molti sfruttano il potere dei mass media. Se si guarda al mio lavoro, questi mezzi espressivi non sono presenti. La mia arte rifiuta il cinismo, rifiuta l’ironia e tenta di restaurare valori che abbiamo perso. In particolare, nella nostra società, la gente non ha più la capacità di interpretare i simboli. Io sono interessato a recuperare una forma di sapere simbolico. Questo è il motivo per cui uso molti elementi simbolici nel mio lavoro; per me tutto questo ha un valore etico.
D: Questa questione mi interessa molto, qual è il dialogo tra arte ed etica?
JF: Non conosco molta arte contemporanea, ma posso dire che attraverso le mie opere io cerco di creare nuove possibilità di sguardo sul mondo, di aprire nuovi universi, e di non essere svuotato dal mondo esterno, dal mondo contemporaneo. Ciò che ispira il mio lavoro è una fede costante nell’umanità, una perenne empatia nei confronti della vita.
D: Ritorniamo alla tensione tra l’umano e l’animale nella tua opera.
JF: Nel mio lavoro io racconto la trasformazione. Dell’uomo nell’animale e dell’animale nell’uomo. Per me questo è un omaggio all’animale poiché io credo che gli animali siano ancora i migliori dottori e filosofi del mondo.
Questo divenire si deve intendere come divenire “qualcosa” d’altro, non “qualcun” altro.
D: Che cosa intendi con questo qualcosa d’altro?
JF: Ho un esempio per aiutarti a capire. Pensa al modello dell’angelo - io ho usato spesso figure di angeli nella mia opera -. L’angelo è perfetto, immobile, unico, senza colpa. Ora pensa al modello dell’umano: è in movimento, non è unico, è colpevole. Il modello dell’umano e quello dell’angelo sono opposti l’uno all’altro. Nel tempo l’uomo è cambiato, si è modificato, vi è una continua tensione nell’uomo nel divenire qualcosa d’altro. Io credo che questa possibilità di metamorfosi sia dovuta al fatto che l’uomo ha ancora l’istinto, e quella è la sua parte animale.
D: “Messagers des morts décapités” rappresenta sette teste di gufo dalla forma antropomorfica.
Perché i gufi della tua installazione sono decapitati? Che cosa significa il loro essere senza corpo? Il gufo è inteso come messaggero di saggezza?
JF: No, non solo. Nella mia opera ho utilizzato sette tipi differenti di gufo. Se guardi ai dipinti classici, capirai che vi sono diverse simbologie connesse a tale animale. C’è il messaggero della morte, che si trova spesso dei dipinti di Bosch, c’è il gufo della saggezza, c’è quello bianco che è il guardiano degli uccelli e della vita spirituale e così via. Ognuno ha una diversa connotazione.
L’idea della decapitazione è connessa ad un rifiuto dell’uso illuministico della ragione. L’opera è una celebrazione della morte, di uno stato di post-morte nella vita. Per esempio, nella mia vita io sono stato in coma due volte; al risveglio dal coma ci si trova in uno stato di post-morte in cui ogni movimento, ogni respiro, è più intenso, più estremo.
D: Intendi dire che se ci dimentichiamo della morte ci dimentichiamo anche della vita?
JF: Sì. La morte ci tiene desti.
D: La morte non ti fa paura?
JF: No. Viviamo in una società in cui la morte viene nascosta “sotto il tappeto”. La morte oggi non viene più celebrata come un tempo, nemmeno in paesi cattolici come l’Italia o il Belgio. Pensa ad esempio ai cimiteri, nessuno costruisce più tombe monumentali, l’arte dei monumenti mortuari non esiste più. La celebrazione della morte per me significa rispetto per i morti, significa che i morti esistono ancora. Voglio dire… i morti parlano… in senso metaforico, naturalmente. Nella nostra società sono tutti impegnati a lottare per avere successo, per essere popolari, per essere “ora” ed “oggi”, nessuno si preoccupa più della vita dopo la morte.
D: Credo che questo accada perché non abbiamo più il senso di una metafisica della vita…
JF: Sì, è una questione di mancanza di credenza, ed è la ragione per cui la società è divenuta cinica. Tutto il mio lavoro è un rifiuto di questa attitudine nei confronti della vita. Il mio lavoro non parla della vita come vita totalmente terrena, il mio lavoro non comunica cinismo. Viviamo in un mondo in cui tutto è posto sotto assicurazione, tutto è controllato. La società è addirittura spaventata dagli istinti; non possiamo più essere animali. Infatti, invece di utilizzare i nostri sensi animali, inventiamo apparecchi per vedere meglio, per sentire meglio, inventiamo i computer, le ecografie, studiamo e studiamo sempre più nel particolare, eccetto che ci dimentichiamo della vita.
D: Quello che dici mi fa pensare a come la maternità stessa non sia vissuta come un processo naturale. La crescita del bambino viene controllata ogni mese attraverso la rappresentazione visiva dell’ecografia. Questo appare come un tentativo di controllare la vita e il corpo della donna, che ha in sé un potere ed un “eccesso”: quello di dare la vita.
JF: Certamente, infatti le due statue di donna esposte alla mostra a Ginevra (Histoire de larmes [sculpture de larmes I & II], NdR), sono un omaggio alle madri, alla donna: le guerriere più belle del mondo. Il corpo della donna viene sempre penetrato dall’esterno, in tutti i sensi, e nello stesso tempo contiene e porta con sé i suoi fluidi corporei.
D: Spesso hai definito te stesso e i tuoi collaboratori “guerrieri della bellezza”. Mi parleresti di questa idea?
JF: Questa è di nuovo un’idea piuttosto romantica e “old-fashioned”, ma io credo che il romanticismo sia “avant-garde”. Per me essere un guerriero della bellezza significa lottare per la giusta causa, battersi per la giustizia. La bellezza è un valore etico, l’estetica e l’etica sono per me la stessa cosa. Per me, essere un artista è un lavoro molto serio.
D: Pensi che l’arte abbia un valore politico?
JF: Io spero di curare le ferite nella mente e nell’animo delle persone.
D: Dunque l’arte sembra avere un potere di “cura” a livello individuale, più che sociale…
JF: Beh, sì. Perché anche quando cinquecento persone visitano, diciamo, l’inaugurazione di una mia mostra… questo rimane, comunque, un evento marginale. Se vuoi raggiungere la massa, devi usare altri mezzi di comunicazione, che sono quelli che io rifiuto. Nelle mie mostre, attraverso le mie opere, io voglio creare una sorta di luogo spirituale, rituale. Questo è molto difficile perché l’unica fede è oggi il denaro, la pubblicità, l’immagine. Gli ultimi luoghi sacri sono gli uffici delle società che fanno più soldi.
D: Anche il mondo dell’arte è piuttosto influenzato dal mercato e dal profitto economico, qual è dunque la tua posizione?
JF: Quello che sto cercando di dire è che io voglio creare con la mia opera un universo differente. Non sono interessato ai linguaggi pubblicitari… molti artisti contemporanei di successo utilizzano gli stessi mezzi di comunicazione delle grandi multinazionali, ovvero il linguaggio che controlla il mondo. Io rigetto tutto questo, e ciò significa che tento di offrire al mio pubblico la possibilità di un diverso ordine di regole, una diverso modo di pensare il mondo. Io sono profondamente convinto che bisogna continuare a credere. L’uomo è in continuo cambiamento e metamorfosi. Per esempio, viviamo in un mondo popolato di insetti, e ancora non sappiamo quasi nulla del loro linguaggio, che è molto più difficile e complicato del nostro. In fondo, dobbiamo ricordarci che utilizziamo solo il venti per cento delle potenziali capacità del nostro cervello. Io credo ancora, perché credo nel potenziale dell’umanità. E’ una questione di trovare il giusto metodo di “consilience”.
D: Che cosa intendi per “consilience”?
JF: Ti faccio un esempio: immagina di essere un entomologo, e di studiare il comportamento degli insetti, in particolare, diciamo, la loro intelligenza genetica. Un altro scienziato studia la stessa cosa nell’essere umano. Queste due conoscenze possono essere collegate ed attraverso un confronto si sveleranno le similitudini e i legami tra queste due diverse forme di vita. Questi nessi portano alla possibilità di nuove interpretazioni sia del modo di concepire l’intelligenza umana che quella dell’ape. Così si possono comprendere molte cose su di noi, come ci muoviamo, perché, …
D: Un’altra scultura esposta alla tua mostra (“Dependens”) rappresenta un uomo impiccato, il cui corpo è ricoperto da puntine da disegno, che costruiscono l’effetto di una sorta di seconda pelle. Questa è una tecnica che utilizzi sin dai tuoi primi lavori…
JF: E’ una seconda pelle. Gran parte del mio lavoro si basa su un’idea umanistica del futuro. Che uomo sarà quello del futuro? Come sopravviverà? Che caratteristiche fisiche svilupperà? Che tipo di pelle avrà? Nella mia opera ho spesso creato sculture che rappresentano monaci, creature spirituali, ricoperti di ossa umane ed animali… questa copertura esterna è per me il risultato di una metamorfosi dello scheletro interno allo scheletro esterno, come ad esempio quello degli scarabei.
D: Avere un corpo diverso modificherebbe anche il nostro modo di pensare?
JF: Certamente. Un corpo che non può più subire ferite ci allontanerebbe dalla sofferenza.
D: Anche le nostre ferite psicologiche sarebbero curate da uno scheletro esterno?
JF: Sì, perché non potremmo più sanguinare, e credo che nel momento in cui fossimo protetti da una nuova pelle penseremmo e sentiremmo in modo diverso. Forse sarebbe un altro modo di soffrire che non possiamo comprendere ora… la sofferenza è solo umana, gli angeli non soffrono.
D: D’accordo… diciamo una cosa assolutamente banale… se qualcosa di umano restasse in noi, potremmo ancora essere feriti dall’amore, ad esempio.
JF: Speriamo, speriamo… In fondo credo che tutto questo lavoro sull’invulnerabilità dell’uomo non sia altro che una riflessione e una celebrazione della sua vulnerabilità. E poi per me di sicuro è anche un rifiuto della tecnologia delle protesi umane. Vogliamo cambiare il corpo dell’uomo e cosa utilizziamo? Protesi tecnologiche. Io sono contrario a questo tipo di modificazione del corpo. Il mio lavoro è tutto ispirato ad un ritorno al corpo umano, al corpo animale. E’ una difesa della bellezza e della vulnerabilità dell’uomo, una celebrazione della sua vulnerabilità.
D: Che cos’è l’utopia per te?
JF: Sai, ho fatto una performance quando avevo diciotto, diciannove anni… era il Settantotto o Settantanove… era un omaggio a Thomas More. Non molti sanno che More ha scritto Utopia ad Anversa. Io mi sono messo di fronte alla casa in cui More aveva abitato e lavorato e ho celebrato il suo messaggio. Molti pensavano che fossi un mezzo matto, era come gridare nel deserto… come i profeti.
D: Sei religioso?
JF: Diciamo che credo. Credo nell’immagine e nell’idea di Cristo, e nella Chiesa come forza spirituale. Ma non sono cattolico e non frequento la chiesa. Non credo nella Chiesa come istituzione ma credo nei principi del cristianesimo, come dottrina di carità e perdono. Credo anche nella preghiera come esercizio della mente e spero di riuscire, con le mie opere, a creare un’atmosfera di contemplazione.
D: La galleria o il museo, pensi che possano ancora essere luoghi in cui è possibile creare tale atmosfera contemplativa?
JF: Sì, io credo di sì. E’ questo il motivo per cui non sono un artista contemporaneo. Sono un artista romantico, ma come ti dicevo prima il romanticismo è vera avant-garde. Per me, questo modo di pensare, questa sensibilità romantica, sono come lavorare nel mercato nero. E’ contrabbando di pensiero, fare le cose a modo proprio, creare il proprio sistema.
D: Trovo tutto questo affascinante, ma c’è un interrogativo che dentro di me non tace. Tu dici di voler sfuggire alle logiche del mondo contemporaneo, di voler restaurare un pensiero che non appartiene più a questo mondo… Ma come puoi pensare di utilizzare gli spazi dell’arte contemporanea sfuggendo alle loro connotazioni culturali ed economiche? Come può essere l’utopia, senza una critica della posizione storica e sociale dalla quale si parla?
JF: Io credo che l’aspetto critico sia presente nella mia opera, e che sia veicolato dalle opere stesse, che da sole, parlando di altri mondi ed altri universi, aprono nuove possibilità.
D: Che artisti contemporanei apprezzi?
JF: Mi piace molto Ilya Kabakov (con il quale ha collaborato per il film An Encounter, NdR). Ma i miei veri eroi sono i pittori classici fiamminghi e gli scienziati, il cui lavoro mi influenza profondamente. Penso che la scienza sia molto più rivoluzionaria dell’arte.
D: Grazie Jan, sono le 4 e sono costretta ad augurarti buona notte… inizio ad essere davvero stanca…
JF: Io sono completamente sveglio. La notte non dormo, lavoro.