DROME magazine Anno 3 Numero 9 gennaio - marzo 2007
Intervista
La sua produzione artistica in serie inizia per gioco, nel 1989, sui muri di Rhode Island, per poi diventare un vero e proprio fenomeno globale. Così oggi le sue ‘opere’ sono esposte nelle collezioni del New Museum of Design di New York, del San Diego Museum of Contemporary Art, del Museum of Modern Art di San Diego, del Victoria & Albert Museum di Londra.Ma attenti, il Gigante vi guarda!
Malgrado il suo logo e la sua estetica rappresentino anche una serie di capi d’abbigliamento, Obey non si può liquidare solo come un prodotto di moda. Shepard Fairey, più conosciuto come Obey, ci propone delle immagini dallo stile urbano che si contraddistinguono dalla massa per le numerose referenze alle icone più famose e per le tecniche svariate che utilizza: dallo stencil alla pittura, dagli sticker al collage. Ma è soprattutto l’esercizio visivo e intellettuale estremamente raffinato e pieno di humour alla base della sua ricerca che ha intrigato e provocato più di un passante e che oggi suscita non pochi interessi nell’ambito della critica e del collezionismo più attento.
Affascinante e brillante ci spiega, in maniera appassionata, come l’obiettivo della sua ricerca artistica è condurre la gente ‘prima a pensare e poi a reagire’, non il contrario, come spesso è accaduto, e ci dice anche il perché.
DROME: Il tema di questo numero è il DOPPIO e ho pensato a te perché nel tuo lavoro c’è la nozione di doppio. In primo luogo, lo sdoppiamento tra Obey e Shepard Fairey. Che ne pensi?
OBEY: Ho valutato a lungo la questione del mio anonimato. E’ l’aspetto misterioso del mio lavoro che porta la gente a parlarne molto. In tanti mi hanno odiato perché non capivano il proposito dell’opera e perché sentivano che venivano colti di sorpresa. Nel mio caso non si tratta di cercare di diventare famoso o di voler vendere qualcosa. In effetti, tutti capiscono l’intenzione delle pubblicità: quando vedi un poster per i Black Flag, sai che verranno a suonare ben presto nella tua città. Al contrario, in André the Giant non c’è niente da capire, bisogna solo fare uno sforzo di immaginazione. E con questa storia devo aver dato fastidio a più di una persona! Allo stesso tempo, la gente mi scrive perché ha letto degli articoli nei giornali e mi suggerisce delle idee per i miei poster. E’ necessario trovare un equilibrio tra il mistero e le possibilità di mostrarsi il più possibile. Nel 1990 mi sono appropriato di uno spazio espositivo pubblicitario a Rhode Island, ho sovrapposto un’enorme testa di André a un poster che vi era già affisso e le mani di André fuoriuscivano da questo spazio espositivo, e ho posto uno stendardo che diceva “Join the Posse!". La radio iniziò a parlarne e alcuni articoli a proposito furono pubblicati nei giornali. L’immagine iniziò ad essere riconosciuta ma nessuno sapeva chi ci fosse dietro o cosa volesse significare… Di tanto in tanto, per far parlare i mass media, è necessario puntare più in alto e non solo ricoprire la città di adesivi! In questo modo stimoli la curiosità della gente ed è come una pubblicità gratuita. E’ una super-macchina. E molta gente osserva e dice: “Vuoi solo diventare famoso”. A questi io rispondo: “No, non è questo, ma intendo spingere questa cosa il più lontano possibile, fino all’assurdo“. E la triste verità, però, è che la gente non vuole comprendere il concetto di Giant, ma vuole conoscere la personalità che gli si nasconde dietro. Così, una maniera per me per procurarmi tutta questa pubblicità gratuita è essere quella persona, diventarne il portavoce.
D: Come nasce Obey?
O: Hai visto They Live di John Carpenter? Nella storia i personaggi incontrano dei messaggi occulti “consuma, dormi, guarda la televisione... ". Per le serie Obey sono stato ispirato da questo film, che ho visto nel 1995. Mi è piaciuta molto l’idea che sia necessario fare degli sforzi per decifrare i messaggi. Il mio passaggio preferito del film è quello in cui gli iniziati decodificano su una banconota il messaggio "Questo è il tuo Dio"! Ho creato il progetto Obey per costringere le persone a confrontarsi con se stesse. Ho l’impressione che molti non realizzino che nella vita agiscono come individui obbedienti e disciplinati. Forse i miei poster possono farli riflettere sulla loro condizione. E molti potrebbero non tollerare questa cosa.
D: Quindi, se ho ben capito, c’è un “effetto specchio” tra le tue immagini e l’osservatore…
O: In principio ho creato l’adesivo “André the Giant Has a Posse”, poi ho iniziato a fare degli stencils più grandi con lo stesso messaggio; ho capito che più grande è la rappresentazione più importanza dà la gente al messaggio. Ho iniziato ad andare a New York e attaccare in giro i miei stencils, ma non ho potuto affiggere molti poster fino al ‘93. Ho notato che quando attaccavo un adesivo sopra ad altri adesivi, era sempre “André the Giant has a posse” ad essere staccato in maniera violenta. Ho pensato che questo tipo di azione non faceva altro che portare in superficie i complessi della gente. La cosa più interessante per me è proprio l’idea che la gente abbia paura di quello che non riesce a comprendere o a spiegarsi. Mi sono reso conto che la gente era spaventata e paranoica nei confronti di questa immagine, che io penso invece sia buffa e stramba, e ho deciso quindi di sfruttare queste reazioni.
D: E’ assimilabile ad una forma di propaganda…
O: Quando ho iniziato a lavorare con questo spirito, a esplorare questo stile espressivo, ho avuto la sensazione di aver compreso velocemente la forza di questo linguaggio grafico, stile propaganda, e mi è sembrato molto efficace.
Penso che una delle cose più interessanti che mi sia successa all’inizio della mia carriera è stata a proposito di un mio amico ebreo della Carolina del Sud. I suoi genitori avevano un negozio e noi avevamo l’abitudine di frequentarlo; prima che lui sapesse chi disegnava gli adesivi di André gliene ho incollato uno proprio sulla vetrina. Quasi ogni giorno ne incollavo uno e loro lo toglievano. Erano veramente seccati e seppi che avevano chiamato la polizia dicendo che un gruppo antisemita stava bersagliando il loro negozio.
Questa storia riflette il loro complesso di persecuzione e, naturalmente, la cosa non aveva niente a che vedere con l’antisemitismo. Io e il loro figlio eravamo amici.
Si tratta di episodi interessanti. Ti faccio un altro esempio: qualcuno una volta aveva scritto su un poster con la stella sopra la silhouette di una città "fuck you nazis." Quello che mi interessa è la reazione che la gente ha di fronte ai simboli. E quello che cerco di fare nel mio lavoro è proprio di desensibilizzare la gente nei confronti dei simboli i quali hanno ormai assunto un’infinità di significati. Per esempio, il simbolo della stella viene utilizzato da così tante culture differenti che pensano di essere in opposizione, come i russi, i cinesi, gli americani, i ribelli. In realtà, la stella a cinque punte è anche semplicemente una bella immagine, ma se la usi con il rosso la gente pensa che tu sia comunista. Ed è veramente divertente vedere la reazione a questi simboli. Io cerco di incoraggiare le persone prima a pensare e poi a reagire. Io sono solo un reazionario vero, nel senso che reagisco a tutti gli stimoli che mi bombardano cosiccome la gente che guarda il Giant reagisce a lui.
D: Sei considerato un artista politico?
O: Ho cercato di rendere questo progetto a-politico. Voglio stimolare il pubblico ad arrivare ad una propria interpretazione, spingerlo a riflettere sul senso di ciò che vede. Il problema è che tanto più è possibile incasellare qualcosa come proveniente da una particolare posizione, quanto più facile diventa ignorarla. E’ un dialogo costante con l’osservatore; ciò che faccio è inviare uno stimolo e rispondere con un nuovo stimolo in base alla reazione ricevuta.
Ciò che ho compreso solo in un secondo tempo è che ci sono due modi per spingere il pubblico ad amare qualcosa. Uno di questi è quello di associarlo con cose che amano, l’altro è quello di spingerli ad amarla perché la cosa è odiata dalle persone che loro odiano, così, automaticamente, piacerà a loro. Se crei una cosa odiata dai conservatori, i ribelli la ameranno anche se non hanno idea di cosa significhi. Le persone che sono di solito spaventate da quello che non capiscono sono i tipi conservatori e autoritari che vogliono mantenere un certo ordine nella nostra società, perché sia più facile il controllo. Costoro odiano questo tipo di messaggio. Il fatto che alcuni odino questo messaggio fa sì che altri lo amino e quindi dicono “non ho idea di cosa sia ma siccome vuol dire 'fuck the system’ allora mi piace". E questo è molto cool e allo stesso tempo estremamente efficace.
D: Le tue immagini sono delle icone contemporanee, pensi che entreranno nei libri di storia dell’arte come “Obey Giant il ritrattista del XXI secolo”?
O: Non lo so. Sono un artista pop nel senso più elementare del termine. Le cose che vedo intorno a me sono la base del mio lavoro e lo scopo del mio lavoro cambia quando una cosa che leggo o che vedo inizia ad annoiarmi. Sono una persona molto visuale. I simboli che utilizzo evocano la propaganda politica ma, in realtà, sto solo commentando la cultura popolare, sto solo cercando di divertirmi e di fare qualcosa di artistico allo stesso tempo.
D: Pensi che il tuo lavoro abbia una doppia vita se è esposto in una galleria d’arte o per strada?
O: Mi stai chiedendo se le gallerie sono una semplice estensione di ciò che faccio per strada? Se vuol dire semplicemente che più gente guarda le mie immagini? Sì, in qualche modo è così. La galleria legittima ciò che faccio presso coloro che possono permettersi di comprare le opere d’arte. La realtà dei fatti è che se non si vive di rendita non è possibile passare la propria vita ad attaccare poster o sticker in giro senza guadagnare. Alcuni sostengono che se esponi in una galleria: “ti sei venduto!”. Ma è solo ignoranza. Il mio scopo è quello di far riflettere il più possibile persone differenti.
Comunque, se fossi molto ricco, non farei delle mostre nelle gallerie così da proteggere tutto il mio mistero! Ma è necessario per trovare i soldi per stampare i poster che affiggo per strada. Credo che la gente si renda conto che il mio lavoro acquisti il suo valore nel contesto che gli è proprio: sui muri della città.