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Work.Art in progress (2006-2008) Anno 4 Numero 16 estate 2006



Arte e televisione: relazioni pericolose

Adriana Polveroni



Rivista della Galleria Civica di Arte Contemporanea di Trento


EditorialeEditorial
Fabio Cavallucci

AperturaOuverture
Arte e televisione: relazioni pericolose/Art and Television: Dangerous Liaisons
Adriana Polveroni

Rewind
Il potere delle donne/The Power of Women
Discussioni e punti di vista/Discussions and viewpoints
Cristina Natalicchio

MostraExhibition
Cinema infinito/Neverending Cinema

Quasi cinema/Almost Cinema
intervista a/interview with ZimmerFrei di/by Sarah Scandiffio

Luci, camera, azione!/Lights, Camera, Action!
sceneggiatura di/script by Maria Ida Clementel

Il cinema come arte sovversiva, l’immagine in movimento come norma/Cinema as a subversive art, the moving image as a norm
Andrea Bruciati

DidatticaEducation
A scuola con gli artisti/At school with the artists

Cambiate il colore degli occhi/Change the color of your eyes
Ylenia Angeli

Mario Airò/Lorenzo Bruni

Stefano Arienti/Giulio Ciavoliello

Stefano Cagol/Roberto Pinto

Claudia Losi/Riccardo Conti

Adrian Paci/Alessandro Rabottini

Progetto speciale/Special Project
Between the Past and the Future
intervista a/interview with Jimmie Durham di/by Anna Daneri

DibattitiDebates
Italia nova, vecchia Parigi/Italia Nova, Old Paris
Fabio Cavallucci

EconomiaEconomics
Double Happiness
Marco Tomasini

Spot!
Bird Flu
Stefano Cagol

Open Air
Michael Fliri. Let love Be Eternal, While it Lasts
Barbara Casavecchia

Forward
Anteprima/Preview Galleria Civica di Arte Contemporanea Trento

Musei e Gallerie Museums and Galleries
Mostre in Trentino-Alto Adige e Tirolo/Exhibitions in Trentino South Tyrol and Tyrol

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n. 19 estate 2007


Lucio Fontana, Deposizione, 1956
terracotta colorata/colored terra cotta, 48,5 x 54 cm
Courtesy Studio La Città, Verona

David Hall, TV Pieces, 1972
videostill
Courtesy GAM, Torino

Gerry Shum, Identification, 1970
videostill
Courtesy GAM, Torino

È quasi un luogo comune dire che l’arte non vada d’accordo con la tv. Ma la questione va sviscerata meglio, alla luce non solo dell’interesse che storicamente, anche se oggi piuttosto appannato, la tv ha mostrato verso il mondo dell’arte, ma anche per via della fascinazione che questo ha subito dalla tv. Per facilitare il discorso, vorrei inquadrarlo lungo tre traiettorie: 1) storica, e quindi la nascita della tv come medium culturale e l’interesse degli artisti verso di esso; 2) qualitativa, e dunque un’indagine sulla natura dell’arte contemporanea e la contiguità dei due media. Infine, un terzo punto che riguarda il primato della tv.
Cominciamo con dei brevi cenni storici. Un volume che ormai ha dodici anni (Le avventure dell’arte in tv di Luisella Bolla e Flaminia Cardini, Nuova Eri, 1994) ricorda che fin dal suo giorno di nascita, il 3 gennaio 1954, la Rai manda in onda un programma culturale che si chiama Le avventure dell’arte. A questo primo documentario su Tiepolo, ne seguono molti altri: Almanacco, L’approdo, Artecittà, Arte e paesaggio, Avventure dei capolavori, Caccia al quadro, Grandi mostre. Programmi cui partecipano, nel ruolo di autori, alcune figure destinate a lasciare un profondo segno nella scena culturale: Umberto Eco ed Emilio Garroni e cui si aggiungono, via via tra gli altri, Paolo Portoghesi, Alberto Arbasino, Maurizio Corgnati, Luciano Emmer, Cesare Brandi che nel ’75 firma A tu per tu con l’opera d’arte e da ultimo Federico Zeri. Tra gli ospiti troviamo Argan, Benevolo, Gregotti, Insolera mentre Pino Pascali, Mario Sasso e Gae Aulenti realizzano alcune sigle.
L’elemento che accomuna questi programmi, sebbene alcuni si caratterizzino come ritratti ambientati di celebri artisti (tra gli altri: De Chirico, Henry Moore, Consagra, Melotti e Burri) è che l’arte entra vi entra come oggetto di un discorso che rimane decisamente televisivo. La tv, in breve, rimane schermo di essa. Si comporta come un giornale per immagini, non avviando, salvo alcune sparute eccezioni, nessuna sperimentazione per cui l’arte possa diventare un soggetto attivo.
A ben vedere, anche il tanto celebrato connubio Channel 4 e Turner Prize – ma magari averne in Italia! – il prestigioso premio dato in Inghilterra a un artista contemporaneo, ospitato alla Tate Britain e trasmesso in tv, si iscrive in questo solco.
La differenza sta nel fatto che il Turner Prize fa audience: un sistema culturale attento, che negli anni ha formato un pubblico per l’arte contemporanea, con giornali che dedicano spazio a mostre ad artisti, ha prodotto il miracolo. Neanche RaiSat Art, con cui negli anni Novanta si inaugura un palinsesto interamente dedicato all’arte, al mercato e ai suoi protagonisti, si allontana da questa impostazione. Più innovativo, almeno nelle intenzioni, è stato L’ombelico del mondo, programma firmato nel 2001 da Paolo Fabbri e Nanni Balestrini e realizzato al Link di Bologna, dove la tv si fa atelier filmando il farsi di un’opera in tempo reale. A questo programma di RaiEducational fa seguito oggi Art News, che però va in onda in uno dei tipici orari impossibili della programmazione culturale televisiva: alle 7 del mattino del sabato.
Eppure, e vengo al secondo punto di questa breve introduzione storica, alcune interessanti aperture di credito verso questo nuovo mezzo c’erano state. Nel ‘52, nel Manifesto sulla televisione, l'ultimo dei manifesti dello Spazialismo, distribuito durante una trasmissione sperimentale della Rai di Milano, il 17 maggio 1952, e firmato, tra gli altri, da Lucio Fontana, si afferma che “noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d'arte, basate sui concetti dello spazio [...]. Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell'arte che professiamo". Aggiungendo infine che “per noi la televisione è il mezzo che aspettavamo per dare completezza ai nostri concetti”.
In questo primo riconoscimento della contiguità tra arte contemporanea e televisione, il ruolo decisivo lo gioca la tecnica. Che segna la distanza verso manualità e procedimenti tradizionali e apre di fatto al Concettualismo, sebbene nella sottolineatura del rapporto tra artista e macchina, che troverebbe proprio nella tv il suo ambiente naturale. Pochi anni dopo la pubblicazione del Manifesto degli Spazialisti, arrivano le prime realizzazioni di quella dichiarazione di intenti, che però cambiano di segno, iscrivendosi nel solco di una critica più o meno radicale alla tv.
Tra il ’58 e il ’59 nei suoi Décoll/ages Wolf Vostell inserisce schermi e trasmissioni televisive, iniziativa che prelude alla nascita della videoarte. Molti storici dell’arte concordano nel fissarla a partire dal trattamento delle immagini elettroniche operato da Nam June Paik che, fin dal 1963, con i vari Participation tv che generano all’interno del dispositivo televisivo un magmatico flusso di forme e suoni che lo spettatore può alterare.
Ma il rapporto più conflittuale con la tv, della quale Paik subisce la fascinazione: basti pensare alla presenza in molte sue installazioni dei monitor come oggetto totemico contemporaneo, emerge chiaramente in Global Grove del 1973. Come fa notare Gianni Romano, nel saggio introduttivo del catalogo della mostra Media Connection (Roma, 2001), il riferimento è al “global villane” di Marshall McLuhan, di cui Nam June Paik non condivide l’entusiasmo per la tv, e per questo al villane sostituisce il grove, che vuol dire canale, ma anche routine, avvertendo che “questo è lo sguardo su un nuovo mondo in cui potrete cambiare canale scegliendo una qualsiasi tv straniera e le guide televisive saranno alte come l’elenco telefonico di Manhttam”. Global grove, conclude Gianni Romano, anticipa lo zapping televisivo.
Accanto a Paik vanno collocate le esperienze di John Cage e Dan Graham e, negli anni ’70, i Live-Taped Video Corridors di Bruce Nauman che, pur sviluppandosi dalla performance, possiamo leggere come precursori di un certo uso del video che vede la partecipazione creativa dello spettatore con il suo corpo e la sua immagine. Si tratta di sperimentazioni in cui la critica al mezzo televisivo è particolarmente accesa e il cui apice è raggiunto dal televisore dato alle fiamme di David Hall.
In altri contesti, invece, assistiamo alla realizzazione di un uso assolutamente inedito della tv. A Colonia, tra il ’68 e il ’69, nell’ambito del progetto Television Gallery Gerry Schum realizza una serie di programmi dedicati alla Land Art e poi, con Identifications, si occupa del lavoro di Beuys, Boetti, Daniel Buren, Walter De Maria, Richard Long e Giliberto Zorio, fino a realizzare nel ’72 a Düsseldorf, una Video Gallery. Mentre Alan Kaprow arriva ad organizzare un happening all’interno di uno studio televisivo (quasi un modello al rovescio di ciò che fa la Galleria Civica di Trento trasformata in set da ZimmerFrei), fino a togliere in Hello il controllo delle tecnologie ai tecnici della stazione televisiva Wgbh di Boston.
Anche in quegli episodi che potremmo definire di luddismo anti-tv, così come nella espressione più moderata della critica ai media rintracciabile nelle installazioni new dada cariche di monitor, affiora però una certa ambiguità. Nota Elena Volpato nel catalogo già citato della mostra Media Connection: “quanto più la video arte si adoperava a negare o a parodiare la funzionalità comunicativa classica del piccolo schermo, tanto più il mezzo televisivo finiva per campeggiare onnipresente nelle opere di quegli anni”. È solo con gli artisti delle ultime generazioni, lontani da un certo rigore ideologico, che il manifesto sulla tv dello Spazialismo trova una concretizzazione più esplicita.
Se assumiamo per vero, come ci dicono alcuni critici, ad esempio Dieter Schwatz, direttore del Kunstmuseum di Winterthur, che “il contenuto dell’arte è anche la ripetizione”, allora la contiguità tra arte e tv risulta più stretta. Ripetizione vuol dire anche serialità, vuol dire loop, tratti distintivi dell’arte tutta e della video arte di oggi.
Ma c’è dell’altro. E veniamo all’Italia. Uno degli artisti che, pur criticamente, non ha avuto difficoltà a riconoscere alla tv un debito formativo dato dalla riserva di immaginario che gli procurava è stato, più di altri, Mario Schifano: celebri i suoi Paesaggi tv e Ora esatta dove protagonista è lo schermo televisivo.
Per venire a tempi più recenti, Grazia Toderi ha dichiarato di “aver scelto il video perché può essere trasmesso ovunque nel mondo e perché è fatto di luce che corre”. Aggiungendo che “il loop soddisfa l’utopia del tempo circolare”. Qualche anno fa, con Nata nel ‘63, Toderi ha realizzato un “amarcord” della sua infanzia, riproponendo le immagini della conquista dello spazio come vennero mandate in onda dalla tv. Nata nel ’63, dunque, come molti altri lavori dell’artista padovana, è la dichiarazione esplicita di appartenenza degli artisti di oggi alla televisione e all’immaginario che questo dispositivo tecnico può aprire. Ed è per questo Dna che l’attuale generazione di artisti scavalca di fatto le opposizioni degli anni Settanta.
Ma non solo, negli ultimissimi anni vi sono alcuni artisti che realizzano una sorta di “reality”: si mettono in scena, raccontando una situazione dal punto di vista eccentrico dell’arte. Gli esempi sono i più disparati: dai video di Jankowski, di Carola Spadoni, dell’israeliana Tamy Ben Tor a molti lavori di artisti cinesi visti alla Triennale di Torino. E ancora: molta arte contemporanea che tenta di dare il proprio sguardo sulla realtà, specie quella sociale, non a caso utilizza il video perché in questo mezzo trova una possibilità narrativa, sia pure a “bassa risoluzione” e non estetizzante. Aggiungo, infine, che mi pare di cogliere che parte dei lavori contemporanei di oggi sono fatti già per essere visti attraverso un occhio televisivo.
Queste considerazioni rafforzano la possibilità di un ingresso forte dell’arte in tv. Con caratteristiche molto diverse da quelle osservate agli albori della televisione, consentendo l’ipotesi di una tv agita direttamente dall’arte e dagli artisti. E magari non da soli, ma in una rete di relazioni che articoli meglio lo stesso linguaggio artistico.
Le ultime osservazioni ci hanno introdotto a quel secondo punto che ho definito qualitativo: la contiguità tra mezzo televisivo e arte contemporanea che poggia, oltre che sull’appartenenza degli artisti all’era televisiva, anche su alcuni tratti specifici della stessa arte contemporanea. Ve ne vorrei indicare alcuni, ricorrendo ad Emilio Garroni che, prima di essere semiologo e filosofo, è stato autore tv.
Garroni aveva capito un punto fondamentale: “L’arte contemporanea si presta meglio al discorso tv perché l’infrangibilità dell’immagine – nel volume Le avventure dell’arte Garroni cita per tutte la Gioconda, simbolo di una tradizione figurativa centrata sulla forma – si è indebolita e addirittura venuta meno”. Che cosa significa questo? Che l’arte contemporanea presenta una forma aperta, decentrata, caratteristica che io, che faccio anche televisione, traduco come “tridimensionalità intrinseca”, volendo intendere con questo la sua natura radicalmente interattiva. Aspetto che a volte solo un’immagine in movimento può cogliere. L’interattività di alcune installazioni elettroniche che ricorrono a media diversi come suoni e immagini, le performance, i dispositivi partecipativi, possono essere apprezzati nella loro complessità mediatica solo o dal vivo o attraverso l’immagine televisiva. In questo senso, molto c’entra l’uso della telecamera, che non deve essere “genuflessa”, didascalica, non deve avere cioè un taglio museale, perché la tv non è un museo e non può replicare quel tipo di sguardo, ma deve essere altrettanto attiva e interattiva come è l’opera d’arte che ha davanti.
Consideriamo anche un altro elemento: a differenza di quanto si possa pensare, l’occhio televisivo non solo non è mai neutrale, perché è l’occhio del regista, ma non è neanche naturalistico. Il regista decide quanto e come un’opera va vista. E questo, per dirla con Anna Zanoli, regista Rai di lunga esperienza, “consente di aggiungere e costruire effetti di senso”. Il che implica, secondo Vittorio Fagone, che “la tv è creatrice autonoma di materiale espressivo”.
Ma c’è dell’altro. Uno dei punti forti dell’arte contemporanea, e che spesso prevale sul suo aspetto spesso definito “difficile”, è la sua capacità allusiva ed emozionale. In quasi tutti programmi che ho fatto ho utilizzato dei video di artisti, anzitutto perché sono già dei prodotti squisitamente televisivi e poi perché ho capito che ricorrere a un certo cortocircuito semantico, dato dall’accostamento tra un discorso e un’immagine apparentemente divergente, a volte può essere un forte portatore di senso. È qualcosa che coinvolge attivamente il pubblico, che lo fa pensare, un po’ come fa l’arte contemporanea. In fondo si tratta dell’applicazione di un suggerimento di un’altra idea che Emilio Garroni formulava, anni prima, su come trattare l’arte in tv. “Non si deve mai parlare dell’arte come tale, ma solo dell’opera d’arte come ‘cosa’, cioè come qualcosa che ha relazioni molteplici con altre cose, persone, avvenimenti”.
Ora, se tutto quello che si è detto finora è vero, perché il matrimonio tra arte tv non s’ha da fare? Perché rispetto a una contemporaneità artistica in espansione, per quanto qualitativamente non sempre coerente, la programmazione televisiva risulta ferma, insensibile? Manca la volontà politica di investire in prodotti nuovi, realmente sperimentali, nella ottusa convinzione che si realizzerebbero programmi di nicchia e noiosi. Eppure oggi in Italia il pubblico c’è, come dimostra il successo dei tanti festival che nascono ovunque. Si tratta di un pubblico molto inferiore a quello dei reality show, ma pur sempre autorevole per formazione, scelte e possibilità di consumi.
Ma il problema è anche un altro: la tv, anche non necessariamente trash, ha vinto come modello mediatico unico. Basta vedere come è trattata la stessa arte quando vi fa il suo ingresso.
A differenza di quello che si dice, oggi di arte in tv ce ne è parecchia. Non c’è rotocalco, servizio con pretese “trendy”, che non includa una finestra su una mostra. E, guarda caso, quasi sempre di arte contemporanea. Perché si tratta spesso dell’arte più “patinata”con il suo contorno di vip, colori, a volte legata alla moda, e dunque con un coté glamour. E legata anche al mercato, al denaro. Ma in questi servizi l’arte appare decisamente decontestualizzata. Cosa di per sé non gravissima, perché anche in un museo l’arte è decontestualizzata, a meno che non sia realizzata ad hoc o site specific.
Il punto è che quello che vediamo non conta di per sé, ma solo in funzione della seduzione che, in virtù di quelle immagini, può essere attivata presso lo spettatore.
Già il modo della ripresa lo rivela: generalmente effettato, sovraeccitato, dove il dichiarato non naturalismo stilistico mira a una persuasione forte. La presenza artistica in tv è stretta, insomma, in una mera funzione decorativa e d’intrattenimento pubblicitario. Ridotta a pretesto estetico per altre pratiche discorsive, tanto che si potrebbe adattare alla tv la definizione con cui Cassirer bollò il cinema: “tecnicizzazione del mito”. Poi c’è la notizia-scandalo, vedi Maurizio Cattelan, di cui i tg e alcuni programmi si accorgono solo dopo la vicenda dell’installazione dei “bambini impiccati” a Milano.
Ma c’è ancora un altro punto, tralasciando il fatto che oggi l’argomento arte-tv è parzialmente superato dall’avvento della Net Art, laddove l’arte invade il web che è oggi il medium più fertile e pervasivo. Bisogna ancora riflettere su quell’affermazione che Stockhausen fece dopo il crollo delle torri gemelle. Suscitando non poche polemiche, il celebre direttore d’orchestra disse che eravamo davanti a un’opera d’arte perfetta, un evento mediatico ineguagliabile. E che, aggiungo io, questa opera d’arte perfetta aveva avuto luogo in tv. Affermazione che, letta da un punto di vista critico, significa che l’opera d’arte, e specie la videoarte, rischia di appiattirsi sul modello televisivo.
Ciò è particolarmente evidente quando gli artisti assumono le modalità del reportage (come si e’ visto ad esempio all’ultima Documenta), sebbene a bassa definizione e con caratteristiche narrative frammentarie, ma volendosi comunque sostituire alla tv, che invece con i suoi mezzi appare vincente, e rinunciando di fatto alla propria identità.
E in questo voler somigliare alla tv c’è l’implicito riconoscimento, molto più di quanto facessero gli artisti degli anni Settanta, che questo è il medium unico.
Il modello già pronto di quella “ipermedialità” di cui parla il semiologo Pietro Montani a proposito della digitalizzazione dell’immagine, che consente di manipolare e costruire qualsiasi immagine in modo tale da non distinguere più tra reale e artificiale e ad altissimo potenziale visivo. Iper, appunto, e mediale. E che in realtà già è disponibile laddove un evento tragico, e ad altissimo potenziale mediatico, si sposa con l’elettrodomestico più a portata di mano, qual è la televisione.
Penso che è da qui che, non solo chi fa tv, ma soprattutto chi fa arte, deve ripartire per ripensare il proprio fare arte e il rapporto tra questa e la televisione.
E magari innestarla del proprio punto di vista, senza cioè rinunciare alla propria specificità, ma realmente ibridandola con le pratiche tecnologiche.

Adriana Polveroni, giornalista e critica d’arte, collabora regolarmente con testate del gruppo “L’Espresso”. Oltre ad alcuni reportage, ha realizzato per la tv programmi culturali tra cui: Luoghi NonLuoghi (Cult tv), Dimmi se sei felice (Cult tv), L’arte dove meno te l’aspetti (RaiEducational).