Titolo Anno 17 Numero 52 inverno 2007
L’arte relazionale è uno ‘strappo’ nel sistema del lavoro astratto, sul quale il capitalismo globale fonda il suo impero, e propone in positivo il fare umano e creativo come cardine del nuovo modello biopolitico1
La questione del rapporto tra l’arte e la vita è stata ampiamente dibattuta: molti artisti si sono interrogati, attraverso le loro stesse ricerche, sulla modalità secondo la quale l’arte possa davvero entrare in relazione con la vita dell’uomo, incidendo sul suo modo di pensare, di agire e di comportarsi e ponendosi così, in qualche modo, come una via per migliorarne l’esistenza.
Il rischio più evidente è quello di professare didascalicamente delle idee, restando semplicemente sul piano della enunciazione, senza rendere consapevolmente partecipe il fruitore, senza cioè che lo spettatore sia posto nella condizione di mettersi realmente e profondamente in gioco, assieme all’autore, nell’esperienza artistica. Un rischio questo, che non riguarda affatto Piero Gilardi, uno tra i pochi artisti che hanno saputo davvero concepire l’arte in stretta relazione con i problemi della vita, con un taglio esplicitamente “impegnato” sul piano sociale. La ricerca di Gilardi, che si svolge ormai da una quarantina d’anni con una sorprendente coerenza coniugata con una continua capacità di rinnovarsi, ha toccato molti degli aspetti che riguardano l’uomo, da quelli più interiori e profondi a quelli riguardanti il suo rapporto con la natura, con il mondo moderno industrializzato e globalizzato, con gli altri uomini. Per meglio dire, Gilardi ci ha coinvolti in una riflessione sulla capacità dell’arte di spingere l’uomo ad agire in senso sociale, proprio a partire dalle sue pulsioni più profonde. In questo senso non stupisce che le sue opere ancora oggi famose, quei tappeti-natura che l’artista realizzò a partire dai primi anni sessanta,2 propongano come tema la natura, in anni in cui era ancora lontana l’attuale, diffusa, sensibilità ecologica. Ma cosa rappresenta questa natura artificiale con cui Gilardi ci invitava a confrontarci, in un rapporto fisico diretto, non di pura contemplazione? Non credo sia inutile ricordare quanto lo stesso autore ebbe a dire al proposito una decina di anni fa. Egli affermava che “anche i (…) “tappeti-natura” non sono nati come quadri, come oggetti da galleria, ma sono nati come proposta per la vita di tutti i giorni: erano veramente pensati come tappeti da mettere in casa e da calpestare. Sotto sotto c’era l’intenzione di far uscire l’arte dagli schemi convenzionali e di farla vivere dentro l’esperienza della quotidianità, con una finzione e un meccanismo di tipo ludico. È però chiaro che l’idea generatrice di quel lavoro scaturiva da una riflessione sulla morte della natura, intesa come metafora delle pulsioni umane, annichilite e vilipese dalla razionalità industriale e metaforicamente rappresentate dal trancio di paesaggio, quasi un cippo alla memoria, che, per ironia della sorte, era fatto di poliuretano, un polimero del tutto artificiale e di non lunga durata.”3
In questa interpretazione di quei lavori, che sarebbe semplicistico ascrivere esclusivamente all’alveo della pop art, ci sono già in nuce alcuni elementi che saranno fondamentali per gli sviluppi successivi delle ricerche di Gilardi.
In primo luogo, naturalmente, la proposta di un rapporto diretto e interattivo con l’opera da parte del fruitore; in secondo luogo, ma strettamente connaturato al discorso dell’esperienzialità, il richiamo alla natura come metafora della condizione essenziale dell’uomo, spesso schiacciata da schemi e sovrastrutture ma legata ai suoi bisogni primari, tra i quali anche la creatività, secondo la lezione junghiana; non manca inoltre un confronto serrato con la modernità, la tecnologia, già intesa al servizio delle aspirazioni umane e non come soverchiante rispetto ad esse. Questi spunti sono stati poi arricchiti da una intensa esperienza sul campo della creatività collettiva.
Dalla fine degli anni Sessanta, dopo aver attivamente partecipato al dibattito teorico nato intorno all’arte povera, Gilardi si ritira — apparentemente — dalla scena artistica. Vive, in realtà, in quegli anni esperienze fondamentali, proprio nell’ottica della sua concezione dell’arte. Come nel caso della Animazione al barrio San Judas di Managua, in Nicaragua, nel 1982, di quella alla scuola indiana della riserva Mohawk di Akwesasne, nel 1983, e di quella con la tribù Samburu di Barsaloy, in Kenya, nel 1985. Simili esperienze di creatività collettiva, vero e proprio esempio di coniugazione di arte e vita, sembrano segnare un passaggio cruciale nell’evoluzione della personalità artistica di Gilardi, allineando la sua concezione del fare artistico sul piano della partecipazione concreta e della collaborazione diretta tra pubblico e artista, il quale assume, in questo contesto, un ruolo ben diverso da quello cui tradizionalmente siamo abituati . Ma è soprattutto l’arte, intesa “nel suo senso profondo di momento simbolico del processo relazionale tra gli uomini”4, ad assumere una diversa natura e un ben preciso ruolo sociale. Nel caso di Piero Gilardi, infatti, il rapporto tra arte e società non è semplicemente una delle chiavi di lettura della sua intenzionalità artistica, ma è piuttosto il suo stesso fondamento. Poiché, come già ebbe ad affermare una ventina di anni fa, Gilardi ritiene che l’arte debba sottostare a tre condizioni: “un rapporto diretto e liberatorio dell’espressione con i vissuti interiori, sia quelli connessi all’inconscio individuale che a quello collettivo; una intenzionalità di tipo protagonistico, sia che ci si esprima individualmente che in gruppo; la coscienza dei nessi tra l’espressione e la vita reale e quindi delle possibilità di trasformare quest’ultima”.5
L’arte interattiva, cui l’artista si dedica dalla fine degli anni ottanta, risponde a queste esigenze.
Non deve stupire come, in questo ambito, Gilardi si sia avvicinato con convinzione alle nuove tecnologie: già nel 1987 egli sosteneva che il problema del rapporto tra arte e politica fosse da interpretarsi nei termini di una “immaginazione vissuta quale disalienazione soggettiva e scoperta di nuovi bisogni, ricchi e complessi, e di un potere quale possibilità collettiva di incidere sulla realtà materiale attraverso relazioni fondate sulla reciprocità; tutto questo, ovviamente fruendo delle possibilità conoscitive e comunicative del nostro “villaggio” globale e tecnologico>”.6
Alcuni suoi lavori, pensiamo in particolare ad installazioni come Ixiana, la mega bambola progettata nel 1988, Inverosimile, presentato nel 1990, o Connected Es del 1998, insistono particolarmente sulla possibilità di ricondurre il partecipante ad una chiara percezione fisica di se stesso e ad un cosciente rapporto con il proprio essere. In altri casi, però, si fa molto più chiara l’aspirazione dell’artista ad evocare quei nessi tra “l’espressione e la vita reale”, a condurre il protagonista dell’esperienza artistica, da lui ideata e diretta, al centro di un problema collettivo, passando per una più lucida consapevolezza del valore dei suoi gesti, anche dei più semplici. Emblematici, in questo senso, lavori come Nord versus sud (1992), Survival (1995) e soprattutto, a mio parere, General Intellect (1996), tutti e tre esplicitamente incentrati su tematiche che si possono definire geo-politiche, o più ampiamente socio-politiche. In queste installazioni, la tecnologia amplifica le sensazioni e le intenzioni dei fruitori, traducendone gli atti concreti, che spesso riguardano il rapporto fisico con gli altri partecipanti, in virtuali cambiamenti di uno scenario impostato sul problema della metropoli multiculturale. Il tema della natura è invece al centro del più interessante progetto cui l’artista si è dedicato negli ultimi anni. Pensiamo naturalmente al PAV, Parco d’Arte Vivente, di Torino. Si tratta di un progetto cui Gilardi lavora da cinque anni, coordinando un folto gruppo di persone.
“Il concept del PAV si fonda su una ibridazione di arte ed ecologia. Un’arte intesa come esperienza creativa e comunicativa ‘in progess’ e una ecologia concepita come articolazione della biologia e nel contempo come problema politico e culturale cogente”7. Il parco è stato pensato come un luogo esplicitamente dedicato alla possibilità di vivere, a contatto con la natura, nuove relazioni sociali grazie all’arte. In un ambiente in cui anche le architetture rispettano le esigenze ecologiche, Gilardi ha immaginato un percorso artistico, denominato BIOMA, che offre sette differenti percorsi, sette possibilità di mettere in gioco la propria creatività e i propri bisogni sociali sotto la guida dell’artista stesso.
Tale connubio tra cultura e natura — i due poli dialettici in cui si muove la ricerca di Gilardi8 — si pone al servizio dei cittadini, rappresentando così il culmine della poetica dell’artista. Altrettanto rilevante, sempre a proposito del PAV, anche il fatto che questo progetto, vantando interventi di altri artisti9 e architetti10, oltre all’imprescindibile contributo di Tea Taramino, artista e arte-terapeuta che collabora spesso con Gilardi, risulta un vero lavoro di gruppo, secondo un atteggiamento ormai abituale dell’artista11, che altro non fa che rafforzare il presupposto di fondo di tutta la sua ricerca: l’arte non deve e non può essere una esperienza individuale, non soltanto a livello di fruizione ma anche sul piano della creazione. L’esperienza artistica deve nascere dalla relazione costruttiva tra più individui.
L’arte, insomma, deve essere relazionale.
1 Conversazione tra Piero Gilardi e Angela Vettese, in A. Vettese (a cura di), Piero Gilardi. Interdipendenze/Interdependence, catalogo della mostra, Galleria Civica di Modena, Palazzina dei Giardini, 14 maggio – 16 luglio 2006, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2006, p. 57.
2 Nei quali, secondo lo stesso autore, possiamo forse riconoscere “quell’embrione di interattività — si possono fruire in modo psicosomatico — che è un fattore di esperienzialità, prologo quindi alla transizione nella dimensione relazionale” (Ivi, p. 49).
3 Intervista a Piero Gilardi, in “Juliet”, n.40, Trieste 1986, poi pubblicata in P. Gilardi, Not for sale. Alla ricerca dell’arte relazionale, Mazzotta, Milano, 2000, p. 35.
4 P. Gilardi, Morte e rinascita dell’arte, in “Frammenti”, n.0, Cuneo, 1984, poi pubblicato in P. Gilardi, Not for sale. Alla ricerca dell’arte relazionale, Mazzotta, Milano, 2000, p. 29.
5 Ivi, p. 31. È particolarmente interessante ricorrere alle parole dell’artista stesso, in quanto egli ha sempre accompagnato la sua produzione artistica con una lucida e chiara attività teorica, senza fare quindi mai mistero della chiara direzione verso cui è orientato il suo agire.
6 P. Gilardi, Arte e impegno, in “Flash Art”, n.141, Milano 1987, P. Gilardi, Not for sale. Alla ricerca dell’arte relazionale, Mazzotta, Milano, 2000, p. 40.
7 P. Gilardi, Il progetto di una vita, in A. Vettese (a cura di), Piero Gilardi. Interdipendenze/Interdependence, catalogo della mostra, Galleria Civica di Modena, Palazzina dei Giardini, 14 maggio – 16 luglio 2006, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, 2006, p. 105.
8 “È […] l’alterata dialettica tra questi due poli che spiega la crisi d’identità individuale, la schizofrenia sociale e la stagnazione evolutiva. La dicotomia tra natura e cultura agita dal potere tecnocratico ha stravolto i parametri del rapporto dell’individuo con se stesso e del rapporto sociale” (in P. Gilardi, Not for sale, Alla ricerca dell’arte relazionale, Mazzotta, Milano, 2000, p. 27).
9 E. Borghi, E. Bertrand, D. Gonzalez -Foerster, R. Ferrero, M. Porta e R. Udo.
10 G. Cosmacini, A Fassi, M. Venegoni.
11 Piero Gilardi, insieme a Claude Faure e Piotr Kovalski, ha fondato l’ associazione internazionale Ars Tecnica che promuove la ricerca e lo sviluppo delle installazioni interattive multimediali.