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Titolo Anno 16 Numero 51 autunno 2006



Moderno postmoderno e c.

Francesco Tedeschi



Rivista scientifico-culturale di arte contemporanea


Fine del postmoderno?


pag. 3 Editoriale
di Giorgio Bonomi

pag 4 Tra terra e cielo…
intervista di Giorgio Bonomi a Marco Tirelli

pag 8 Moderno, postmoderno e c.
di Francesco Tedeschi

pag 11 Il disagio del postmoderno
di Massimo Iiritano

pag 13 Attorno al mondo dei Musei d’arte
contemporanea in Italia
di Emma Zanella

pag 16 Fluidità e globalizzazione nell’architettura
danese contemporanea
di Elena Manzo

pag 20 Sol LeWitt e la modernità
di Elena Di Raddo

pag 23 L’umanesimo digitale di Bill Viola
di Francesca Pola

pag 26 Piero Fogliati. I congegni dell’utopia
di Tiziana Conti

pag 28 Rodolfo Aricò
di Matteo Galbiati

pag 30 Eliseo Mattiacci nell’epoca postmoderna
di Antonella Micaletti

pag 32 Annamaria Gelmi al Castello di Pergine
di Elisa Del Prete

pag 34 Angelo Buonumori
di Viviana Tessitore

pag 36 Morterone. Una casa per la poesia e l’arte
di Lorenzo Mango

pag 38 Italia 2026. Il grado 10 della scrittura urbana
di Valentina Ricciuti

pag 40 Danilo Fiorucci. Taglio dolce
di Marinella Caputo

pag 41 Paolo Radi
di Francesca Turchetto

pag 42 Scoglio di Quarto. Gli sviluppi di una Galleria
intervista di Giorgio Bonomi a Gabriella Brembati

pag 44 In ricordo di Magdalo Mussio
di Francesco Galluzzi

pag 45 Spigolature bibliografiche
di Giorgio Bonomi

pag 48 Recensioni
di E. Aimone, M. R. Bentini, A. Berti, L. Caccia, E. De Albentiis,
E. Farina, E. Forin, M. Galbiati, M, Garzia, R. Gianni, M. Iiritano,
F. M. Nemni, S. Suma, S. Zampini
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n. 62 primavera/estate 2011


P. Mondrian
Grande composizione A, 1920
(courtesy GNAM, Roma)

D. Judd
Senza titolo, 1968
(courtesy Walker Art)

P. Halley
A perfect world, 1993
acrilico, acrilico metallico, Roll-a-Tex su tela

La contrapposizione fra moderno e postmoderno in un certo senso nasce vecchia, per quanto concerne le vicende storiche dell’arte contemporanea, poiché in quest’ambito una fine della modernità può essere precedente alla sua stessa definizione teorica, intrecciandosi con l’annosa questione della morte dell’arte, ma anche perché qualsiasi schema storico-critico risulta presto insufficiente, se consideriamo i fenomeni che sono avvenuti nell’area delle medesime avanguardie storiche. Alla fine della prima guerra mondiale, per esempio, le istanze di recupero della classicità variamente declinate da Picasso o da de Chirico convivevano con le proposte di autonomia della forma di Mondrian e dell’astrattismo, anche in direzione costruttivista, fra loro accostabili forse nel delicato equilibrio del purismo di Ozenfant e Le Corbusier, ma contemporaneamente fioriva la posizione anarchica e anti-moderna del Dada internazionale e tedesco in particolare, tutte interpreti a pieno titolo di quella che Maurizio Serra ha efficacemente definito la ferita della modernità1.
In questo senso una visione multiforme e plurale delle esperienze attive in un asse temporale sincronico vale non solo per l’oggi, ma anche nella prospettiva storica in cui il dibattito sui concetti di contemporaneità e di modernità si è manifestato. Ciò non ostante, una definizione di modernità rivolta a una sua attualizzazione può valere non solo come ipotesi nostalgica, ma come risultante di una riflessione sul rapporto fra elementi teorici e pratica artistica.
In primo luogo, dobbiamo considerare come la disputa sul moderno riguardi la nozione di temporalità e la prospettiva in cui ad essa guardiamo. Viene riconosciuto moderno ciò che è del proprio tempo, ciò che lo rappresenta, cogliendone la fuggevolezza, ma questo in antitesi o in continuità con il concetto di tradizione e in rapporto con il passato?
La critica che Jean Clair ha pronunciato vent’anni fa nei confronti di una modernità in arte che è divenuta una ricerca del nuovo fine a se stesso, fino a dar vita a una forma di tradizione in negativo, che distrugge la nozione di temporalità e porta alla dissoluzione del presente, è suggestiva e valida per il suo apporto teoretico, come immagine di sapore mitico, identificabile nella figura di Chronos che divora i suoi figli, come da lui suggerito2.
Meno condivisibili sono le parti espressamente polemiche di quel suo intervento, tendenti a rivalutare una visione di arte che sembra non tenere conto realmente dei caratteri che l’arte contemporanea è andata assumendo, in un disperato tentativo di restaurare giudizi di valore fondati su principi di mestiere e di tecnica, non più applicabili meccanicamente, anche perché i mezzi con cui ci si misura sono estremamente diversi.
Sono trascorsi alcuni decenni da quando è stata affermata una fine della modernità, intesa tanto come modello di ritorno a una visione che si collega a radici provenienti dal passato, che la modernità avrebbe cercato invano di interrompere, quanto come campo aperto alle più varie ipotesi operative, libere (o prive) da un qualsiasi fondamento o progetto. Ripensando alla specificità della sua ricaduta nell’ambito dell’arte visiva, possiamo valutare che se essa ha potuto incidere sulla produzione artistica, indipendentemente dalle convinzioni dei singoli protagonisti di una stagione artistica che viveva certamente una fine metaforica, quella del secolo e del millennio, e quindi di un’epoca storica con tutte le sue contraddizioni e specificità, lo ha fatto come supporto filosofico di una realtà che va oltre lo specifico momento al quale è stata applicata.
Probabilmente la rottura del principio di continuità corrisponde tanto al modello su cui si fonda, nella sua radice astratta, l’idea di modernità nei confronti della tradizione, quanto l’asserzione di una fine della modernità, che sembra interromperne il corso progressivo.
Al contrario, parlare oggi di modernità può valere come modo di ricollegarsi a una tradizione apparentemente interrotta, come il richiamo a scavalcarne gli assunti ideologici spingeva a ritrovare forme di continuità di principi estetici e stilistici assunti acriticamente.
Forse una vera rilettura del carattere di fondo dell’identità del moderno non può prescindere, comunque, dall’accettazione di un principio di rinnovamento nella continuità, dove in questa va considerato il debito contratto con il passato, più o meno recente, e la inevitabile sua riattualizzazione, propria di ogni momento, secondo le specifiche scelte del pensiero e dell’azione di quel momento storico. La relazione con il passato, pur senza ricorrere all’immagine sempre attuale di considerarsi nani sulle spalle di giganti, come affermava Bernardo di Chartres, può essere ben espressa in un noto saggio di Thomas S. Eliot dedicato al rapporto fra tradizione e talento individuale. In quell’intervento (del 1919) rivolto ai poeti del proprio tempo, lo scrittore inglese osserva come sia impossibile e sbagliato dal punto di vista concettuale considerare l’opera di un autore disgiunta dal suo rapporto con il passato, sul quale pure fiorisce, per valutare come il senso storico si avvalga di una fusione e di uno scambio fra senza tempo e temporalità. La tradizione e il passato sono sempre presenti non solo come modelli, ma anche come forme vive, in grado di essere reinterpretate3.
D’altro canto, già Argan, negli anni Sessanta, dimostrava di percepire, in quel contesto e in quel frangente, il senso di una crisi dell’arte come difficoltà interpretativa delle posizioni dell’arte in relazione alla perdita di una concezione non solo unitaria, ma orientata a un telos, a un fine che dia motivazione al mero fare4.
Se ci immergiamo nella ricca produzione teorica degli anni Ottanta, a proposito del dibattito fra coloro che interpretano i caratteri di una condizione inedita, postmoderna, e coloro che, all’interno di essa, si ergono a difensori dei principi di modernità, corriamo il pericolo di non trovare un valido orientamento per il presente. Vattimo, per esempio, considerava che la perdita di vigore di una concezione alternativa dell’arte rispetto all’estetica della cultura di massa fosse il segno di una fase di tramonto dell’arte in cui l’esteticità diffusa da una parte e il carattere sfuggente dell’opera trovavano validità nella difesa dei suoi caratteri storici —L’opera d’arte è l’unico tipo di manufatti che registri l’invecchiamento come un evento positivo, che si inserisce attivamente nel determinare nuove possibilità di senso5 — e nel riconoscimento di un principio di apertura ai nuovi apporti offerti dalle condizioni tecnologiche e sociali di una fase di passaggio a una cultura post-industriale6.
Maldonado, da parte sua, considerava il valore paradigmatico dell’avanguardia, riconoscendo che l’effetto della cultura di massa sui modelli alternativi della cultura artistica delle avanguardie ne ha certo limitato le potenzialità di rottura e forse di autenticità — che riconosceva nella capacità di realizzare o tendere a un’arte straordinaria di contro a un’arte normale, diluita nella spettacolarità dei mezzi di comunicazione — portando con sé il dubbio se si possa parlare di un “futuro dell’arte” all’interno di un futuro della modernità7.
In vario modo, il riconoscimento di una possibile limitazione dell’originalità dell’atto artistico per effetto delle nuove condizioni di elaborazione del sapere e di produzione di comunicazione poteva essere vista come immagine catastrofica nella quale crogiolarsi, secondo le varie visioni di una sparizione dell’arte (Baudrillard e Virilio in primis) e i sostenitori di una necessità di dialogo fra moderno e postmoderno rivolta a coglierne la complementarità, anche se nel riconoscimento di una condizione in cui l’arte non produce novità e non si fonda su una progettualità teleologica.
Si può forse meglio comprendere la portata di tale relazione dialettica se ci ricolleghiamo al senso derivato che il concetto di moderno ha assunto nella declinazione di modernismo
. Questo vale nella duplice accezione di stile architettonico che eredita e promuove il gusto formato sulle proposte artistiche ispirate alla ricerca di una forma nuova (dal cubismo all’astrattismo, nella ipotesi teorica formulata da Giedion8), e di sintesi delle correnti razionali (cubismo e astrattismo) e irrazionali (Dada, espressionismo e surrealismo), nella via critica che teorizza il valore autonomo e assoluto della forma, secondo la concezione formalista di Greenberg.
In questo senso il post-moderno è preceduto da istanze anti-moderniste, che si manifestano nella critica e nell’arte, soprattutto americana, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che spingono all’estremo il formalismo fino a negare la forma (da Judd a Stella)9 o la materialità stessa dell’opera (da Morris a LeWitt).
Ci si può domandare, al proposito, se le cosiddette "neoavanguardie”, tra cui, con un ruolo particolare, la stessa Arte Povera, siano state espressione di una condizione moderna portata all’estenuazione di modelli e paradigmi (la nudità dell’oggetto, la carica energetica della materia, l’azzeramento della forma e del colore) o non possano già essere intese come anticipazione di una condizione postmoderna, secondo processi profetici e precursori, che spesso l’arte ha manifestato.
Ancora, ci si può domandare che cosa sia vivo oggi del dibattito così acceso negli anni Ottanta, o se tali temi non servano oggi essenzialmente a caratterizzare e leggere retrospettivamente il ventesimo secolo, come, in modo approfondito, viene proposto nel fondamentale volume di Krauss, Foster, Buchloh e Bois, ora pubblicato anche in lingua italiana, che si appoggia alle categorie di moderno, antimoderno e postmoderno, nel tentativo di dare una lettura complessa e non univoca, scandita da nodi cronologici più che da letture compiute una volta per tutte10.
Probabilmente, senza richiamare in vita criteri di giudizio e di valore comunque di parte, come l’accento posto sulla progettualità in altri tempi proponeva, ciò che può valere a fondare un’azione artistica e teorica consapevole è la spinta che proviene da un giudizio critico rivolto sia nei confronti dello svuotamento di senso e della spettacolarizzazione di molti eventi d’arte, sia nei confronti del perseverare nella sterile difesa di principi formali o di mestiere che riducono le prospettive, anziché allargarli. Solo così, forse, si può tornare a usare le categorie del moderno e del nuovo, dentro questo ventunesimo secolo, nel quale il primo segno di apertura dovrebbe essere di carattere spaziale, più che temporale, in quanto anche in arte il primo limite che appare superato è oggi quello di un’arte contemporanea di matrice specificamente o esclusivamente occidentale.


Note

1 Nel passaggio alla modernità, a cavallo del secolo, è insita la ferita della modernità. Non è solo una derivazione di carattere cronologico. L’apparizione della diversità è vissuta dai tradizionalisti e dai ribelli-barbari alternativamente come colpa o ferita, in quanto il mito non si riconcilia con la marcia del progresso (...), M. Serra, La ferita della modernità, Il Mulino, Bologna, 1992, p. 14.
2 Cfr. J. Clair, Critica della modernità, Allemandi, Torino, 1984 (ed. orig. Gallimard, Paris, 1983).
3 Anche Henri Focillon, nel 1943, riconosce come L’artista abita una contrada del tempo, che non è necessariamente la storia del suo tempo. Può (...) essere l’ardente contemporaneo della sua epoca, ed anche farsi un programma di questo atteggiamento. Ma con la stessa costanza può scegliersi esempi e modelli del passato, crearvisi un ambiente completo. Può configurarsi un avvenire che urti insieme il presente e il passato (...), H. Focillon, Vita delle forme, Einaudi, Torino, 1987, pp. 98-99 (ed. orig. 1943).
4 Cfr. G. C. Argan, Progetto e destino, Il Saggiatore, Milano, 1965.
5 G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985, p. 72.
6 L’estetica può assolvere al suo compito di estetica filosofica, in questa prospettiva, se sa cogliere nei vari fenomeni in cui si è voluta vedere la morte dell’arte l’annunciarsi di un’epoca dell’essere in cui, nella prospettiva di una ontologia che non può indicarsi se non come ‘ontologia del declino’, il pensiero si apra anche ad accogliere il senso non puramente negativo e deiettivo che l’esperienza dell’esteticità ha assunto nell’epoca della riproducibilità e della cultura massificata, ibidem. Sul problema cfr. tutto il terzo capitolo del saggio di Vattimo, intitolato alla Morte o tramonto dell’arte, idem, pp. 59-72.
7 Cfr. T. Maldonado, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano, 1987, particolarmente cap. 3, I paradigmi della modernità.
8 Cfr. S. Giedion, Spazio, tempo, architettura, lo sviluppo di una nuova tradizione, Hoepli, Milano, 1954 (ed. orig. Cambridge, Mass., 1941).
9 Cfr. al proposito T. de Duve, The Monochrome and the Blank Canvas, in S. Guilbaut, a cura di, Reconstructing Modernism, Art in New York, Paris and Montreal, 1945-1964, MIT Press, Cambridge, Mass. – London, 1992, pp. 244-310.
10 Cfr. H. Foster, R. Krauss, Y.-A. Bois, B. Buchloh, Arte dal Novecento. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, Zanichelli, Bologna, 2006 (ed. orig. Thames & Hudson, Cambridge, Mass. – London, 2004).