Juliet Anno 27 Numero 131 febbraio 2007
I “Linguaggi Narrativi” come soluzione alla crisi del contemporaneo?
È questa la traccia che segue nelle varie mostre e appuntamenti culturali che qui vado a nominare.
Sembra difficile immaginare nell’eclettismo linguistico di oggi una scena dell’arte tutta intenta alla percezione visiva, alla definizione di forme astratte e alla ricerca di sintesi e concetti informatori come nel passato prossimo. Sia nel rivivere i percorsi del concettuale, sia nella ri-utilizzazione di stili e stilemi in ogni senso e direzione le forme e le idee originali si raggruppano intorno a sistemi narrativi. Da cosa questo dipenda è complesso dire.
Sicuramente si tratta della presenza massiccia dei linguaggi audiovisivi, della supremazia della televisione, dell’invasione di forme da essa derivate. Le arti plastiche adottano, quindi, il “narrativo”. Non per la prima volta in realtà, dato che di “narrative art” abbiamo visto più volte prove e tentativi nell’arco degli ultimi quarant’anni. In una mostra alla British Academy di Roma (“Neocon”), alcuni artisti affrontano il tema della rivisitazione di topoi famosi dell’arte concettuale degli anni Sessanta-Settanta come Vito Acconci o Bruce Nauman “raccontando” in forme aggiornate il senso della vecchia performance.
La rivisitazione prende forma di racconto e sembra confermare l’impossibilità per un artista, oggi, di riaprire la problematica concettuale con la sua fisicità e il senso drammatico del “vero-esperienziale” che non appartiene al sentire di oggi, come nella videoinstallazione di Yoshua Okon (“Coyoteria”), dove la famosa performance di Joseph Beuys viene ricreata- raccontata come ironica rappresentazione teatrale, un injoke che sposta il tema del rapporto società-natura a una ineludibile società-società.
“Good Vibrations” al Palazzo delle Papesse di Siena racconta, invece, il rock attraverso il doppio sguardo dell’industria musicale e delle letture che del rock sono state fatte nel corso del tempo dagli artisti nelle arti visive.
Molti artisti hanno visto il rock come una attraente “Narrativa” pop, come gli inglesi Richard Hamilton, Peter Blake e altri, raffigurando i gesti innovativi e “scandalosamente” sensuali, gli abiti e le fogge, le realtà o le affettazioni di estasi e trance vissuti attraverso la musica e trasmesse per contagio alle grandi masse dei concerti. Ma il rapporto musica e arte sono rappresentati al meglio nel film–documento di “Exploding Plastic Inevitable” ripresa a metà degli anni ‘60 degli spettacoli dei Velvet Underground disegnati da Warhol attraverso la scelta dei suoi filmati e il loro mischiarsi con luci e colori, i colori liquidi proiettati su vasti spazi che erano in uso nelle “Psychedelic nights” di quegli anni. L’idea di Warhol di rendere “prodotto d’artista” un concerto rock resta forse l’idea più forte e interessante, il suo contributo più profondo. Annessione non solo di icone (le figure dei rockers) ma anche di processi comunicativi, di energie che vengono espresse sia nella musica sia con un complesso apparato di gesti, espressioni, costumi, rituali. L’energia del rock si esprime bene visivamente in questo Big Bang di linguaggi espressivi. Il rock viene “raccontato” dall’interno e il narrativo avviene come forma di ibridazione fra linguaggi alti e bassi. D’altra parte, è l’area stessa del rock a riprendere elementi dall’arte visiva in uno scambio che ha il suo punto più elevato nel periodo ‘65-‘85. I punti più evidenti sono il carattere segnico elevatissimo delle copertine dei 33 giri e delle molteplici forme che accompagnano la musica come fanzine, stickers e, dagli anni ’80, i videoclip che sembrano presentano soluzioni importanti a molti livelli linguistici. In effetti, un nuovo narrativo legato alla musica e all’immagine sperimentale che unisce la tradizione del cinema sperimentale e della videoarte in linguaggio transnazionale e transgenerazionale. Narrare l’energia, narrare la musica giovane, narrare “la gioventù”, in questa difficile impresa si ritrovano George Segal con le sue storiche figure in esso di “Rock’n Roll Combo” come Tony Oursler con “Sound disgression in 7 colours”, lavoro di inserimento della musica dentro il video.
Il formarsi di narratività video legata alla ritmica e all’utilizzazione di icone popolari o il definirsi di una grafica iper-figurativa negli infiniti riferimenti estetici delle cover-album creano un ponte importante fra linguaggi diversi (la grafica come la tradizione modernista) e segni linguistici di varie provenienze che ridefiniscono le narrative visive fino all’odierno “Neopop” delle figurazioni contemporanee.
All’opposto, Thomas Ruff, alla Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, pretende di raccontare il vuoto che si nasconde “dietro” la rappresentazione fotografica. Dal non racconto dei suoi primi ritratti iperrealistici e freddamente oggettivi degli inizi Ruff presenta, a sorpresa (sarà poi così?), in questa mostra, una serie di foto prese dal web. Alcune immagini digitali vengono portate al massimo del pixel per evidenziarne la natura non analogica. Altre ancora sono foto pornografiche e vengono trattate con effetti di vario tipo. Questi effetti tendono a rendere flou e poco leggibile l’immagine, pur restando comprensibile nei suoi contenuti chiaramente erotici.
Che cosa racconta Ruff arrivato agli estremi opposti delle sue foto di matrice coniugi Becker? Sembra raccontare il passaggio dell’erotismo sul web e sembra reclamare un atteggiamento diverso nel valutare le immagini? Oppure sembra semplicemente sottolineare che l’erotismo non può essere oggetto di catalogazione come avviene sul web?
I “racconti digitali” sono, allora, a un punto di crisi? L’ultima edizione della mostra Ars Electronica di Linz mandando segnali di crisi (o di trasformazione?) non facili da interpretare, sembra confermare questo assunto. Il richiamo alla “semplicità” nel titolo della mostra “Art of Simplicity” di John Maeda interrompe, di fatto, un “racconto elettronico” durato vent’anni e composto di “cyberpunk”, cyborgs, flash dal futuro e utopie possibili e impossibili. In molte delle opere esposte si sente però quello che è, probabilmente, il vero problema dell’Arte Multimediale, oggi. Un salto qualitativo nelle tecnologie e nelle loro applicazioni che permetta di uscire dalla complessità d’uso che ingessa e impaccia oggi il digitale.
Non più dedita solamente alla difesa dei propri spazi ideologici, l’arte dei New Media cerca l’incontro e la fusione con l’arte contemporanea, come a sanare una troppo lunga separazione.
Ingresso che si prospetta nella comunicazione narrativa come tv, radio, e in forme spettacolari legate allo spazio urbano, alle nuove realtà schermiche che tenderanno a rendere la città uno spettacolo-informazione.
Tracey Moffatt (allo Spazio Oberdan di Milano) è partita alla fine degli anni Ottanta con volontà narrativa e una notevole capacità di affabulazione.
“Between Dreams and reality” suggerisce i punti di sviluppo di un racconto nato dal cinema e che poi ricrea punti di contatto con diversi linguaggi visivi (che al cinema si riferiscono) che presuppongono lo svilupparsi di sequenze d’immagini, in effettivo sviluppo o collocati in modelli narrativi come le foto con didascalie, manifesti cinematografici a colori sgargianti, foto recitate come da vecchi fotoromanzi, pulp fictioncome da telefilm del passato.
Come nella serie “Adventure”, fotogrammi di un’avventura satura di colore, mare, eroi, donne innamorate, tensioni e pulsioni. Il sapore forte e primitivo delle storie e delle immagini la affiancano alla critica post femminista. Ma anche al racconto (che principalmente la interessa) della sofferenza individuale e della perdita identitaria.
A differenza di un’altra grande “narratrice di dolore”, che è Nan Goldin, non c’è segno d’interesse per gli altri e l’esterno. Ogni cosa è riportata al proprio immaginario, anche le storie generali.
Chiusa in un universo interno, la Moffatt racconta dalla propria storia.
Naturalmente ne esce un linguaggio travisante, artificioso, tutto chiuso nelle proprie visioni e immaginazioni. Un sogno interno, quasi sempre con apparenze d’incubo, che prende carattere dalle culture popolari e si sviluppa come medium di massa, volgare, estremo e efficace nel cogliere il malessere di vivere e le subculture particolarmente complesse in una realtà come quella australiana, ricoperta da strati di storie diverse.
Gli ELASTIC GROUP al Tempietto del Bramante, Roma. Gli Elastic Group lavorano da diversi anni sull’idea di videoinstallazione ambientale e da qualche tempo sull’idea di ritratto. I ritratti in questione sono volti ripresi con raggi infrarossi con la tipica colorazione verdastra che ne deriva. Fantasmi visivi, uomini e donne appaiono e riappaiono in schermi collocati sulle finestre del tempietto del Bramante.
Anche qui la componente narrativa sembra forte e lo spazio storico del Tempietto, con la sua perfetta definizione di modello architettonico rinascimentale racconta a sua volta la separazione inconciliabile (come nella migliore sceneggiata delle migliori incomprensioni dialogiche) fra il racconto dell’antico e il racconto del moderno.