Arte contemporanea Anno 2 Numero 7 maggio-giugno 2007
La mostra è curata dal critico Germano Celant uno dei più accreditati studiosi dell'opera di Manzoni e presenta circa 200 opere che coprono un periodo dal 1956 al 1963, anno della sua scomparsa.
Il percorso espositivo oltre all'ampia selezione del suo lavoro, evidenzia in modo preciso le connessioni con altri artisti che lo hanno influenzato mostrando così in modo chiaro ed esauriente lo sviluppo della ricerca dell'artista.
La seppur breve vita di Manzoni è caratterizzata da una instancabile ricerca, da una produttività mai fine a se stessa, ma indice preciso di una lucidità operatività che l'opera pienamente dimostra, e che del resto i suoi scritti confermano.
Piero Manzoni nasce a Soncino nel 1933, segue studi liceali classici e frequenta con regolarità la facoltà di lettere e filosofia.
E' attivo in diverse collettive firmando manifesti con Sordini, Verga, Arman, Fontana e Baj, per aderire poi al movimento nucleare; nel 1958 realizza i primi Achrome, che svilupperà anche negli anni successivi e partecipa al gruppo Zero; nel 1959 inaugura la galleria Azimuth con una mostra di linee, l'anno successivo inizia a lavorare sulle basi magiche, arrivando alla Merda d'artista e alla Base del mondo.
Partecipa a varie mostre in tutta Europa ed al ritorno in Italia nel '63 muore improvvisamente per un infarto.
Raramente si può trovare una perfetta coincidenza tra la vita, l'assetto biografico di un artista e la sua opera, come accade nel caso di Piero Manzoni, inoltre l'aspetto artistico coincide con una estrema lucidità di pensiero rilevabile dai suoi numerosi scritti sull'arte.
"Senza il mito non si dà arte"questa precisa definizione appare appunto in uno degli scritti dell'artista, rivelando un deciso assetto teorico che mostra quanto l'opera sia profondamente annessa e connessa con un preciso apparato culturale.
Il mito dunque è etimologicamente sia parola, che narrazione e la parola è strettamente connessa con l'operatività manzoniana, non certo in forma di commento o di giustificazione dell'opera, quanto invece come logico corollario dell'intuizione creatrice.
Creatrice non in senso meramente ideativo, ma nell'accezione greca di produrre, compiere, termini che caratterizzano fortemente l'operato artistico di Manzoni, e connotano una tensione, un'ansia del produrre che non segue schemi puramente mercantili, quanto invece produttivi nel senso più alto del termine.
Ma l'artista stesso evoca a più riprese una idea di originario, di archetipico, quando afferma che “...il nostro mondo è alfabeto di immagini prime”, evidenziando così il senso primordiale ed arcaico della ricerca, individuando che “…l'opera d'arte ha valore totemico”, non certo da intendersi in senso di valore formale come nelle più riprese di un certo primitivismo acclarato, quanto nell'intuizione antropica di una passato comune a tutti gli uomini.
Inoltre un altro brano dei suoi scritti appare rivelatore di una palingenesi compiuta attraverso l'arte e la memoria atavica dell'uomo: là dove dice “...l'arte non è vera creazione, è fondazione in quanto crea e fonda là dove le mitologie hanno il proprio ultimo fondamento e la propria origine”.
Ma seguire questi filamenti culturali e mitici non deve far dimenticare l'apporto precisamente artistico che Manzoni ha dato ad una apertura del senso e del concetto di opera d'arte.
Nel 1957 Manzoni inizia a lavorare sugli Acrhomes, lui stesso sgombera il campo da precedenti equivoci pittorici, quando afferma che due colori intonati o due tonalità di uno stesso colore, formano già un rapporto estraneo alla superficie.
Ecco quindi il gesto dell'azzeramento, un bianco che è materia, il caolino, una superficie che si increspa mostrando null'altro che se stessa, con un gesto risolutorio che attinge all'originario da lui spesso citato e sposta il problema dell'opera non più solo configurabile attraverso la visione, adottando una infiltrazione di elementi mentali che producono nuove connotazioni interpretative.
La superficie liberata da forme e colori, si frange, si raggrinzisce, si raggruma, divenendo presente a se stessa senz'altro riferimento che ciò che mostra, inoltre questo rapprendersi indovina anche una tridimensionalità che fa della pura superficie liscia, una forma aggettante.
La questione che Manzoni pone è manifestamente esemplata dal successivo sviluppo degli Acrhome, dove accanto alla semplice tela ricoperta di caolino appaiono nuovi e diversi materiali come il cotone, le fibre di nylon, il polistirolo, le fibre di vetro, fino ad arrivare a semplici forme di pane imbevute di caolino a suggerire non una semplice trovata formale, ma quasi un riferimento, alle "arcai" dell'esistenza organica.
Nel 1959, le date sono solo indicative, perché l'artista non procede in senso strettamente cronologico, inizia a lavorare sulle Linee, sottili meccanismi ideativi che presuppongono un tempo definibile in senso concreto ed una idea che ha statuto di categoria mentale.
L'aspetto più significativo di tali opere è la loro presunzione di esistenza, chiuse in scatole e solo raramente srotolate, si pongono come possibilità, espressioni di un pensiero quando sono ipotizzate sigillate dentro i contenitori, esperienze materiali quando srotolate si impongono alla vista, dichiarando non solo la loro esseità di cose, ma anche l'ipotetico tempo occorso per realizzarle.
Lo stesso Manzoni con una sorta di civetteria notarile dichiara all'esterno di ogni involucro la lunghezza reale espressa in metri, che poi altro non corrisponde che alla durata temporale che la metratura suggerisce.
Privilegiando il tempo, con uno scarto decisamente concettuale, realizza linee infinite, dove la dimensione dello spazio si dilata in un tempo incalcolabile presumibile appunto da un pensiero fondato sull' immateriale.
Fra tutte le misure sperimentate, la linea più significativa, dato il suo carattere esplicitamente estremo, è quella realizzata a Herning, della lunghezza di 7200 metri, condizione che Manzoni rileva anche in senso cronachistico indicando anche il tempo impiegato per realizzarla: dalle ore 16.00 alle ore 18.55 del 4 luglio 1960.
La dimensione tempo appare significativa nel dichiarare apertamente i dati esecutivi, e non potrebbe essere altrimenti visto che l'anno prima esegue un'opera 1-30 settembre incollando l'uno accanto all'altro i fogli dei giorni di un calendario.
L'immateriale, l'atmosferico, o se vogliamo il semplice soffio entrano decisamente in un'altra serie di lavori, i corpi d'aria, semplici palloncini che l'artista gonfia utilizzando il fiato, denominati anche fiato d'artista, che si pongono in una condizione intermedia tra materialità e immaterialità.
Qui diviene interessante ciò che Manzoni dichiarava riferendosi alla scoperta dei miti universali; il soffio in diverse culture ha il significato di principio della vita, Ruah, lo Spirito di Dio che aleggia sugli acquei primordi, descritto dalla Genesi è identificabile con il soffio, e altrove la stessa creazione dell'uomo è originata da un insufflare la vita nel corpo immoto.
La stessa definizione ebraica Ruah è generalmente tradotta con Spirito corrispondente al greco Pneuma, è significativo che tutte queste definizioni indicano un soffio che esce dalle narici o dalla bocca e sono associate all'idea di un vento creatore.
I Corpi d'aria vengono gonfiati da Manzoni alla presenza del compratore, trasformando anche l'esecuzione in una messa in opera di un rito preparatorio di un feticcio o ancor meglio di una reliquia dell'artista, infatti anche il prezzo varia a seconda del fiato immesso nell'involucro.
Questo senso sacrale anche se venato da una sottile acredine ironica, ritorna anche in un'altra operazione manzoniana Consumazione dinamica del pubblico divorare l'arte, in cui l'artista imprime la propria impronta, segno evidente di uno stigma dichiaratamente identitario, su delle uova sode, constatando che, date in pasto al pubblico durante l'esposizione, questo ha divorato una intera mostra in 70 minuti.
Ancora una volta è l'artista, che utilizza le sue tracce, frammenti di esistenza che condivide con il pubblico, ma in questo caso l'apparente provocazione assume un senso più ampio, non solo una irrisione al mercato dell'arte con i suoi collezionisti ed il suo apparato che divora l'opera, ma una sorta di atto di transustanziazione, ovvero per traslato, cibare il pubblico dell'arte con il proprio corpo, sorta di atto eroico e archetipicamente fondante.
L'aspetto sacrale e quasi totemico, già dichiarato da Manzoni in alcuni suoi scritti è rilevabile nelle Basi Magiche, sorta di piedistalli che rendono opere d'arte chi vi sale, per il tempo che vi rimane, questi basamenti non accolgono opere definite, non alludono ad annose diatribe tra scultura e base, semplicemente si pongono come una alterità rispetto al mondo dell'opera, ribaltando il senso dell'arte.
Non è esposta l'opera, ma il dispositivo materiale che permette all'opera di essere, di porsi in forma; ma egli compie anche un'altra operazione; l'opera esposta dura un tempo limitato e alfine è solo il basamento che rimane come durata artistica e come presupposto e forma dell'opera.
Il paradigma della base magica che crea e produce l'opera, viene enfatizzato con una operazione di grande portata concettuale, che relativizza tutte le Basi esistenti: nel 1962 Manzoni si reca nuovamente a Herning per realizzare la Base del mondo-base magica n.3 -Omaggio a Galileo, una sorta di piedistallo che riporta il titolo capovolto, spostando addirittura la percezione dell'intero pianeta esposto come opera poggiante sul basamento installato dall'artista.
Sappiamo per certo, attraverso la testimonianza di Enrico Castellani che Manzoni, aveva raccomandato la lettura di un libro per lui importante: C.G.Jung, C.Kerenyi, Prolegomeni per una fondazione scientifica della mitologia, ed in effetti nei suoi scritti ritorna spesso il riferimento a concetti archetipali di stampo junghiano.
Ciò dimostra come molte operazioni dell'artista che in apparenza mostrano una sorta di goliardia, altro non sono che esplicitazioni di idee tra lo scientifico ed il mitologico, e riguardo a quest'ultimo termine basta rilevare come nei suoi scritti la parola mito ricorra sovente.
Quindi anche l'operazione Merda d'Artista letta inizialmente (e purtroppo di sovente ancor oggi) come goliardica provocazione o come passo falso nel "cattivo gusto" da parte di Manzoni, è invece forse l'opera più commovente in senso esistenziale e la più connotata in senso esplicito, di valori mitici.
In molte tradizioni gli escrementi sono considerati un ricettacolo di forza, poiché rappresentano l'aspetto biologico sacrale che risiede nell'uomo, la parte di sé che filtrata dal corpo vivente si dà come residuo, per cui ciò che potrebbe apparire uno scarto è invece in molte culture e racconti mitici, associato all'oro.
Giova peraltro qui ricordare la freudiana fase sadico-anale che si pone come seconda fase dell'evoluzione libidica, caratterizzata da significati legati alla defecazione ed al valore simbolico delle feci.
Quindi il gesto di Manzoni assume una ampia connotazione culturale che spazia dalla mitologia, all'antropologia, alla psicoanalisi, senza peraltro omettere una precisa critica al feticismo del mondo artistico che tratta le opere come semplice merce, con una precisa presa di posizione dell'artista che indovina lucidamente una certa afferenza tra merce e feci.
La merda dell'artista viene inscatolata, con procedimento industriale, ne viene dichiarato il contenuto con una etichetta di spore neutro e documentale, viene firmata e numerata come un multiplo irridendo alla singolarità e all'unicità dell'oggetto d'arte, riporta pedissequamente l'esatto peso della materia inscatolata.
Questa esplicitazione quasi maniacale dei dati informativi, dimostra l'evidente attitudine mitologetica manzoniana e la severa serietà di tutta l'operazione, inoltre l'ulteriore conferma viene dalla precisa indicazione che la merda deve essere venduta al prezzo corrente dell'oro, con una funambolica azione Manzoni chiude il cerchio, il feticcio sacrale, perché resto dell'artista e quindi opera, assume il massimo valore riconosciuto dal sistema economico.
Giova ricordare inoltre una intervista a Lucio Amelio, grande e sensibile gallerista, che parlando della Merda d'Artista ricorda come il barattolo sia in realtà anche una tomba, una sorta di urna-reliquiario dove parte del corpo dell'artista giace sopravvivendo alla morte fisica che ha ormai disfatto il suo corpo.
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