Arte contemporanea Anno 2 Numero 9 novembre-dicembre 2007
Luciano Fabro
Due frasi di Luciano Fabro, tratte da un libro da lui pubblicato con Einaudi nel 1978, risultano emblematiche sia della processualità artistica adottata, sia della poetica che conforma la sua attività: "per scansare ridicole interpretazioni, per dare cose di facile lettura, ho fatto tautologie"; e l'altra: "icerte materie per colore e forma stanno bene assieme, anzi spesso, sono state scelte a rappresentarsi l'un l'altra: la pietra, il bronzo, il vetro, il tessuto".
L'apparente semplicità degli enunciati non deve ingannare, perché si tratta appunto di una apparenza, il discorso, perché mai come nel caso di Fabro questo termine è appropriato, vista anche la sua produzione teorica, è assai complesso ed articolato e tutta l'opera dell'artista è permeata da un rigore formale e mentale.
Anzitutto l'idea di coerenza formale legata ad un concetto di produzione artistica definita e definibile, non tocca minimamente l'operato di Fabro, ciò non vuol dire che non vi sia, ma che questa appartiene ad una idea sottesa alla processualità del produrre l'opera, più che alla riconoscibilità iconografica e formale della stessa.
L'adozione della tautologia che presuppone una chiusura circolare del senso ed una sua autonomia significativa, viene però attraverso interventi e spostamenti di senso parzialmente alterata, producendo aperture e falle in cui penetra sottilmente la metafora.
Per esemplificare, pensiamo ad una sua opera del 1967, Pavimento, dove l'artista compie una azione apparentemente minimale, ma gravida di conseguenze teoriche.
In una galleria dalla connotazione strutturale che ricorda un semplice appartamento, l'artista pulisce e lucida con cura una porzione di pavimento, la stessa viene poi ricoperta di fogli di giornale, perché sia protetta da polvere e sporcizia .
L'azione è dichiaratamente tautologica, il risultato è pavimento su pavimento, ma già in filigrana appaiono elementi di sottile allusione domestica, (lo stesso artista dice che al suo paese c'era l'abitudine di pulire il pavimento, e ricoprirlo di carta o stracci perché si preservasse), che spostano il senso in un ambito più poeticamente evocativo.
L'aspetto poetico-dichiarativo dell'opera risiede anche nel fatto che proteggere significa anche preservare, lasciare ambiguamente una traccia del proprio operato (la porzione di pavimento pulita), che per propria natura non è osservabile, perché protetta da fogli di giornale.
Ciò che appare evidente nel lavoro di Fabro è quindi una idea, una definizione propria ed al tempo impropria, in senso percettivo, dello spazio, lo stesso artista lo definisce come atto di ragione e non di senso, come nell'opera Il buco, mezzo specchiato mezzo trasparente del 1963, dove le immagini sono giocate sul riflesso e sulla trasparenza.
La parte speculare rimanda il mondo, quella trasparente lo mostra al di là dello specchio, il processo percettivo è esplicitato sulla base di un vedere che è nelle cose, ma va oltre le cose, il riferimento a Fontana è tradotto attraverso un uso di una materia che esplicita se stessa attraverso le sue precipue ed intrinseche qualità.
Lo stesso artista cita un esempio filmico come L'Angelo sterminatore di Louis Bunuel, la folla di borghesi chiusi in una stanza da cui non possono virtualmente uscire, "perché nella realtà non coincidono con il virtuale" come egli afferma, ma se consideriamo il senso della poetica del regista, la coincidenza è ancor più stretta, quella classe (la borghesia) è il riflesso di una propria identità, non può quindi attraversare la soglia del reale (la trasparenza) perché questo autoriflettersi gli preclude la pienezza del reale.
Un'altra frase significativa dell'artista contribuisce a definire altri sviluppi del suo lavoro: "più riducevo all'oggetto lo spazio degli attributi, più aumentavo il suo spazio ontologico e di conseguenza il suo spazio interpretativo… presi forme familiari e le feci inciampare: L'Italia, ma appesa in modo abnorme…" appunto la serie dedicata alle forme, è il caso di dirlo, dell'Italia in cui lo stereotipo della forma geografica dello stivale è a più riprese realizzato con i materiali più vari, pelliccia, cristallo, metallo ecc.
Anche in questo caso l'aspetto ontologico convive con quello tautologico, in quanto la forma dell'Italia si presenta nella sua esseità data dalla forma incontrovertibile, ma al tempo stesso questa si esplica attraverso una ripetitività parzialmente contraddetta dall'uso di materiali che inevitabilmente riscrivono la forma stessa.
Quindi il materiale morbido, afflosciando la forma, la ricolloca in un contesto visuale eterodosso, il metallo la solidifica in maniera sostanziale evidenziandone la presenza e l'ingombro spaziale, il cristallo ne mostra la implicita fragilità, di fatto lo stesso artista rivela che in corso d'opera questa andò più volte distrutta.
Proseguendo volontariamente non in senso strettamente cronologico, perché ciò dimostra anche l'intrinseca coerenza del lavoro di Fabro, occorre ricordare una significativa installazione del 1971, Concetto spaziale d'après Watteau, consistente in una tenda, dove l'artista colloca un Watteau, come dice lui stesso, attribuito, nello spazio di apertura tra la cameretta e la veranda, anche in questo caso il problema è gnoseologico, sappiamo che esiste un altro spazio all'interno della tenda, ma questo ci è precluso visivamente dal dipinto che ne occupa l'apertura, quindi dobbiamo adottare sorta di fideistica accettazione di una possibilità spaziale suggerita ed allusa dall'artista.
Il quadro presenta la tipica iconografia di scena di genere ambientata in un giardino, quindi con connotazioni e descrizioni spaziali di ampio respiro, contraddicendo il fatto che il dipinto è a tutti gli effetti uno schermo solido che impedisce la percezione dello spazio reale che di fatto occlude.
Torniamo invece ad un'opera del 1966 In cubo, dove l'idea di spazio agente e spazio agito in qualche modo coincidono, la struttura ha forma di parallelepipedo costruito su di una dimensione di una persona alta circa un metro e settantacinque, con analoga apertura delle braccia, questo perché si possa toccare con le braccia i lati opposti e misurare e contenere nell'ambito dell'esperienza lo spazio definito dalla struttura.
La forma propone, come sempre nel caso di Fabro, una semplicità di materiali ed una complessità di intenti, il cubo non permette un totale isolamento dal mondo, eppure costruito su di una misura umana, estranea dall'ambiente circostante, permette di spostare l'attenzione di chi lo abita, verso se stesso, i propri gesti, il proprio movimento all'interno dello spazio concentrazionario in cui si trova.
Infine propone almeno due modalità di interazione con esso, il sollevarlo per entravi con un senso di penetrazione che ha quasi un sentore iniziatico, e una volta all'interno data la leggerezza del materiale, il poterlo sollevare scardinando le premesse spaziali che il cubo presuppone.
Il rapporto tra azione minima di intervento e spazio la si ritrova anche in un altro lavoro del 1967, foro da diametro di mm5 realizzato su di una lastra di perspex, l'azione apparentemente minimale richiede per la realizzazione un discreto sforzo, come puntualizza lo stesso artista, per ottenere un'opera che si presenta formalmente in modo discreto, poichè appare come una semplice lastra trasparente con un foro appena percepibile.
Anche in questo caso l'ambiguità percettiva, il gioco tra trasparenza ed intervento appare decisamente minimale, tuttavia l'operazione traduce fermamente l'idea che l'opera sottende.
Questa mostra diviene quindi una importante occasione per ricordare un artista di grande sensibilità, profondità e coerenza intellettuale, oltre che assumere anche il valore di testamento spirituale, visto che le opere presenti sono state scelte da Fabro stesso prima della morte, con un taglio espositivo che presenta una serie di opere dagli anni 1963-67, che precedono l'adesione al movimento dell'arte povera, ma contengono già in nuce tutti i presupposti e gli sviluppi delle opere successive.