Arte contemporanea Anno 3 Numero 10 gennaio 2008
Mostra a cura di Gianluca Ranzi
Questa importante mostra curata da Gianluca Ranzi, presenta una significativa rassegna di opere dell'artista svizzero Urs Lüthi, personalità di spicco, sin dagli esordi, delle ricerche artistiche caratterizzate da un uso del corpo, quale medium privilegiato di espressione.
La scelta del curatore appare quindi estremamente interessante in un momento in cui le problematiche del corporeo e soprattutto la questione identitaria, assumono grande rilevanza all'interno delle attuali esperienze artistiche.
Inoltre la scelta di dedicare una mostra a questo artista, appare quanto mai opportuna, poiché ad una analisi approfondita, il suo lavoro mostra una esuberanza di senso, non certo ravvisabile ad una immediata lettura iconica, quanto estensibile ad una fitta rete di rispondenze e tangenze culturali di ampio respiro.
Partiamo da Lüthi; lui stesso afferma "forse l'aspetto più significativo e creativo del mio lavoro è l'ambivalenza come tale", non parla esplicitamente di ambiguità, né di sola imago intersessuale, ma di ambivalenza, cioè l'idea di esprimere un doppio valore; ma se volessimo addentrarci anche nella metafora scientifica, non risulta certamente inopportuna l'idea di un atomo che si combina con altri atomi.
Questo per evidenziare interessanti congruenze tra il lavoro di Lüthi ed alcuni campi squisitamente umanistici che presentano curiose assonanze con la provocazione e l'esplicitazione identitaria che l'artista adotta nelle varie forme dell'autoritratto.
L'identità e la specularità: sotto il segno di questi due effetti si gioca spesso la partita dell'immagine che Lüthi propone, difatti lo stesso artista in una famosa foto del 1972, caratterizza la sua immagine dal senso ambiguo e seducente, con un frase che dichiara Sarò il tuo specchio, ed il linguaggio ci aiuta a decifrare il non detto, se consideriamo che in inglese mirror oltre ad indicare l'oggetto che riflette, può significare anche riflesso e lusinga.
Nel 1949, data vicinissima alla nascita dell'artista, al XVI Congresso internazionale di psicologia tenuto a Zurigo, Jacques Lacan presenta la sua più straordinaria intuizione: Lo stadio dello specchio, come formatore della funzione dell'io.
E' interessante notare come in questa teoria tutto si giochi sul livello identitario più profondo, quello che attiene al riconoscimento di sé attraverso il proprio riflesso, difatti Lacan pone l'accento sull'atteggiamento giubilatorio e ludico che assume il bambino nei confronti dell'immagine riflessa.
Nelle fasi che lo psicanalista individua vi è tutta la progressione esperienziale della acquisizione di identità: dapprima il bambino reagisce come se l'immagine fosse l'immagine di un altro, poi scopre che la figura altro non è che un riflesso ed alfine comprende la verità che segna ineluttabilmente il suo essere, poiché riconosce nel riflesso sé stesso.
Anche Lüthi come dicevamo si espone come riflesso, ma la riflessione si pone in una triplice angolazione identitaria verso il fruitore dell'opera; dapprima noi vediamo una immagine dichiaratamente femminile e ciò ci pone in alterità da questa, poi comprendiamo che l'aspetto ambiguo è un riflesso dell'artista, che si nasconde dietro ad essa, infine assumiamo, anche per la dichiarazione linguistica esplicita, l'immagine come nostro possibile riflesso.
Lacan afferma inoltre che nella relazione tra immagine e soggetto si crea tutta la serie infinita di identificazioni che attraversano il corso della vita, quindi la riconoscibilità del riflesso come immagine di sé colma un vuoto tra il corpo e la sua immagine.
Lüthi nei numerosi autoritratti colma appunto questa distanza tra l'opera specchio dell'autore e lo spettatore che inevitabilmente coinvolto si riconosce, attraverso chiari segnali seduttivi, nell'immagine che ha di fronte.
La seduzione attuata da Lüthi non è certo quella meramente visuale, ma attraversa regioni emotive e sottilmente intellettuali del vedere, inoltre sebbene le pose esplicitate e l'adozione del mezzo fotografico attengano ad una staticità dell'opera, tuttavia il lavoro dell'artista è estremamente dinamico, poiché se si riporta il senso di sedurre all'etimologia originaria, lo scopriamo composto da Se inteso come separazione e Ducere nel senso di condurre, menare.
In effetti gli autoritratti di Lüthi ci separano proiettandoci in una dimensione identitaria che è altra da noi, e nello stesso tempo ci conducono ad una consapevolezza del duale, del duplice, che scardina ogni certezza univoca di identità.
La diarchia uomo/donna è superata dalla esplicita dichiarazione di ambivalenza, come nel caso di Selfportrait presente in mostra che rappresenta l'artista di tre quarti con il braccio piegato ed appoggiato sul fianco, mentre guarda intensamente un altrove (noi che lo osserviamo) al di fuori dell'immagine; in questo caso la separazione è già esplicitata dall'artista poiché il volto truccato mima una fisionomia femminile, e il corpo villoso esplicita una mascolinità dichiarata, ma la lusinga che l'immagine trasmette non è affatto soddisfatta, poiché il corpo smotta nell'ombra proprio all'altezza dell'inguine impedendo una certa e risolutiva definizione identitaria.
Ma lo iato, la frattura da Lüthi continuamente esibita non si risolve solo attraverso il mascheramento della corporeità, ma investe e si amplifica anche nell'ambientazione e nello spazio entro il quale il corpo si manifesta.
In Selfportrait del 1976 l'artista si presenta con le caratteristiche fisionomiche che lo contraddistinguono, un volto incerto tra maschile e femminile, una espressione fortemente coinvolgente, quasi un richiamo carico di blandizie, ma il corpo vestito di nero è quasi totalmente assorbito dalla oscurità del fondo, sorta di buco nero che inghiotte la figura lasciando in luce solo il viso; le braccia rilassate indovinano la posizione delle gambe, mentre un lume appena accennato mostra un giaciglio sul quale l'artista siede.
Abbiamo qui una sorta di triangolazione del senso, il volto che sappiamo essere di un uomo, appare marcato da caratteri femminili, il corpo incuneato nel fondo è da questo annullato, la superficie appena accennata del letto ci mostra invece una fisicità intuibile dalle pieghe della stoffa.
Ecco nuovamente la sottigliezza dell'operazione di Lüthi, dove l'esplicitazione dell'ambivalenza è data non solo dal corpo, ma anche dall'ambiente, ma poiché questa ambiguità non è risolvibile, la questione rimane aperta ed è il fruitore che deve adottare la riflessione sul riflesso per ricomporre l'unità dei frammenti.
Ma l'analisi che Lüthi mette in campo, attraverso la sua immagine, va oltre la semplice esibizione di sé, toccando tutte le corde connesse alla ricostituzione dell'immaginario.
Quindi adotta maschere, assume deformazioni, gioca con l'aspetto ludico e tragico dell'essere, individua nel mondo e nell'ambiente circostante dualità inusuali, assume il tempo come categoria fisica ed identitaria.
A tal proposito appare assai significativo un suo lavoro del 1974 intitolato indicativamente Semplicemente un'altra storia di partenza, serie di nove autoritratti dove Lüthi articola il suo pensiero in modo assai complesso, adottando il tempo come modalità che si aggiunge alla condizione dicotomica del maschile e femminile.
La prima foto della serie mostra Lüthi nel consueto aspetto androgino, ma con una attenzione significativa per il trucco che in questo caso ci rimanda l'immagine di una giovane donna semplice e per nulla appariscente, l'ultima foto mostra invece l'artista pesantemente truccato ad incarnare una vecchiaia che nella realtà è di là da venire.
Tra i due estremi c'è un lento, ma inesorabile trascorrere temporale leggibile attraverso i segni che questo lascia sul volto, rughe che via via si accentuano, calvizie incipiente e un ispessimento dello sguardo che si fa sempre più vacuo e vuoto.
Tuttavia l'artista mantiene una morfologia fisionomica di impronta femminile, ma l'intuizione poetica e sottile che Lüthi esplicita è quella del volto relativo ad un tempo corrispondente alla maturità, che mostra una chiara ambiguità tra uomo e donna, come accade talvolta nella realtà quando si arriva nella mezza età, a mostrare caratteri fisici delle due identità.
Allora si comprende l'aspetto tragico di Lüthi, la sua è una lotta seduttiva per condurre lo spettatore a specchiarsi nella sua immagine (in cui egli stesso si specchia), ma al tempo è un condurre verso una sorta di caducità dell'immaginario che in filigrana fa apparire nelle immagini di oggetti l'idea di vanitas e nell'esibizione di sé un che di mortifero.
In questo senso risulta assai significativa una sua opera intitolata La vie, la mort, un dittico composto da due foto assolutamente identiche, che riproducono il mare, ma nel cui centro rispettivamente sono riportate le parole del titolo.
Quindi qui l'ambivalenza si scioglie, la dicotomia si annulla nell'unità, stesso mare, l'uno vitale, l'altro mortifero; l'immagine ed il suo riflesso ricongiunte, lo iato temporale ricomposto attraverso i due estremi, il vivere ed il morire.
L'ambivalenza sottende comunque un movimento alternato tra due polarità, tra una duplice condizione che è imprescindibile dall'idea di frattura, sorta di faglia del senso che Lüthi inserisce a volte in alcune sue opere.
Citiamo il caso di Selfportrait del 1971, dove l'artista compare in quattro pose fortemente caratterizzate; nella prima gli occhi sono coperti da occhiali scuri, sorta di interdizione allo sguardo, di contro nelle altre il capo reclinato si offre al fruitore con una intensità del guardare che suggerisce un seducente abbandono.
La foto nella parte superiore del dittico, mostra invece un edificio che si staglia contro il cielo e poggia su di una striscia inclinata di terreno.
Appare chiaro il concetto di taglio, di frattura, ciò che l'artista incarna in senso somatico, attraverso il trucco, creando una divisione tra maschile e femminile, viene ribadito in termini di metafora visuale dalla foto del palazzo che si trova ad essere in una situazione ambivalente, sospeso com'è tra terra e cielo.
L'idea sottesa di un intervento diretto dell'artista sulla propria immagine la si ritrova in un'altra opera I never saw a woman smile in Marocco dove Lüthi appare come di consueto separato, scisso, tra un volto dichiaratamente femminile ed un corpo ostentatamente maschile.
Ma in questo caso il gesto esplicitato non è senza conseguenze, le mani sono poste agli angoli del viso, quasi volessero tirare l'epidermide per mostrare l'idea di maschera che questa suggerisce, vi è quindi un eccesso di senso, nella maschera ambigua definita dal trucco, si insinua l'idea di un volto che l'artista può comunque ulteriormente manipolare.
Questa continua interrogazione tra sé e la propria parvenza, tra il simulacro seduttivo che egli pone in essere ed il pubblico, non può non svilupparsi anche in senso narrativo attraverso l'esplicazione di una successione di eventi apparentemente incongrua, ma secondo la lettura sin qui adottata, perfettamente coerente.
Ciò è rilevabile in un trittico intitolato Crime2 del 1974, dove nella prima foto appare l'artista investito da un fascio di luce che ne individua come sempre le fattezze androgine, ma al tempo evidenza una espressione inquieta, come fosse stato fermato nell'atto di una azione che non ci è dato di comprendere, ma che si intuisce carica di un senso fortemente drammatico.
La seconda foto mostra un liquido biancastro mentre scorre sulla superficie di un pavimento, come se fosse la traccia di un evento non dichiarato, ma consequenziale alla tensione emozionale espressa nella prima foto, mentre stilisticamente si offre come una sorta di documentazione della traccia di una azione compiuta.
Nella terza un fascio di luce indovina una presenza, attraverso l'immagine di gambe inguainate da calze a rete, con un preciso richiamo a certa filmografia noir; anche qui nulla è dato sapere dell'ambiente, se non l'intuizione di una scala che svanisce nell'ombra.
Ecco il taglio, la vertigine narrativa, ora Lüthi gioca sul mascheramento del linguaggio, non certo letterario, ma altrettanto efficace, truccando il senso di una storia, a suo modo estremamente seduttiva che solo il fruitore può riorganizzare in un insieme di eventi che a prima vista appaiono dilacerati, trovando un senso che l'artista molto abilmente appena suggerisce.
Ecco quindi l'importanza di questa mostra, che offre la possibilità di vedere e di vivere letteralmente l'opera di un artista, la cui sottigliezza intellettuale e le cui trovate formali ancor oggi influenzano fortemente alcune esperienze dell'arte contemporanea.