Titolo Anno 17 Numero 54 autunno 2007
...o della leggerezza dell'ombra
Paolo Icaro è uno scultore che illustra un filone, tutto italiano, nella storia dell’arte contemporanea — e ciò, certamente, non sminuisce né viene affermato per nazionalismo vanesio, pur consapevoli che per le politiche culturali ed economiche sciagurate l’Italia non ha mai difeso, né lo fa ora, i suoi artisti, spesso grandissimi, e comunque non inferiori agli americani o ai tedeschi — che risale, nella modernità, a Medardo Rosso, più che a Brancusi, ma potremmo anche dire che tutti provengono dall’“incompiuto” michelangiolesco, per poi affermarsi con Arturo Martini, Leoncillo, Melotti, il Fontana delle sculture titolate “concetti spaziali”, Nanni Valentini, il primo Spagnulo. Tutti artefici di una scultura, se non proprio “incompiuta”, certamente “abbozzata”, “scabrosa” nella sua non levigatezza totale o in alcune parti, nella quale la “sbozzatura” è tale solo apparentemente, essendo già opera “compiuta” e non mancando di un certo rigore “classico” nell’armonia delle forme (anche se sono “disarmoniche”). Inoltre, se il materiale più usato è la terracotta, in tutte le sue declinazioni, anche gli altri non sono tralasciati, dal marmo al bronzo, dalla cera al ferro.
Se Leoncillo ha dato prova di una eccezionale scultura policroma, gli altri hanno preferito un colore unico, fosse solo quello della terra.
Icaro, che partecipò ad una delle primissime mostre dell’Arte povera, ci sembra più vicino a Paolini — molto poco “povero” e assai più “concettuale” — anche se esprime contenuti e modalità esecutive completamente diversi. Già nell’approccio alle “materie” (nel senso di idee e materiali) ci pare di poter cogliere certe assonanze, nel senso generale di “lievità” pensosa che entrambi trasmettono, così come le “sculture di carta realizzate con e nelle mani” ci richiamano i rayographs di Man Ray (fotografie realizzate solo con la carta sensibile, luce e mani o oggetti).
Così possiamo definire Icaro “scultore della leggerezza”: non nel senso di Melotti che usava strutture leggere e, spesso, filiformi, bensì nel senso di Arturo Martini che voleva librarsi verso l’alto pur restando ancorato sulla terra.
Ovviamente impieghiamo il termine “leggerezza” nel suo significato nobile di levità, di ariosità, e non in quello, diminutivo, di mancanza di peso e quindi di serietà. Non possiamo, qui, non ricordare le parole di Calvino(1): “Esiste una leggerezza della pensosità, così come tutti sappiamo che esiste una leggerezza della frivolezza; anzi la leggerezza pensosa può far apparire la frivolezza come pesante e opaca”. Del resto già Montesquieu, nel ‘700, aveva annotato che “la gravità è lo scudo degli sciocchi” (2).
Allora, quando osserviamo le sculture di Icaro e ci sovviene il concetto di “leggerezza”, siamo consapevoli che parliamo di una dimensione mentale, ed estetica, non di chilogrammi: se i gessi sono leggeri di per sé, il piombo o la pietra non lo sono, ma l’intervento poetico dell’artista rende lievi quei “pesi”, sì che, a volte, è “costretto” a ingabbiare pietre e marmi con “cinghie”, reti, superfici, di acciaio o di piombo per non farli “volar via”, oppure, in altre circostanze, tratta il piombo come la carta, piegandolo e “accartocciandolo”.
Ma la “leggerezza”, potendo anche significare “possibilità di volo”, facoltà di librarsi nell’aria, può assumere il significato di “libertà” e, da qui, di “sincerità”: l’artista ha sempre dimostrato una grande libertà creatrice, che non lo porta però a creazioni eclettiche e plurime, infatti è uno di quegli artisti che ha un suo segno inconfondibile, un suo linguaggio che si ritrova in tutte le sue opere, dalle più vecchie alle più recenti.
Icaro “supera” (3) sia la dicotomia in cui tradizionalmente si colloca la scultura, divisa in quella a “togliere” e quella ad “aggiungere”, sia la consueta affermazione relativa alla scultura come “costruzione di/nello spazio”, indice di una concezione invasiva, se non “ingombrante”. Al contrario, Icaro sembra fare proprio il pensiero di Eraclito che afferma: “Il signore che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna” (4), infatti la sua opera “indica”, “induce” uno spazio, vi si situa, appunto, con riservatezza (5), con leggerezza, la quale naturalmente non ha nulla a che fare con le dimensioni.
Ecco, la grande “libertà” della poetica di Icaro fa sì che il suo lavoro non possa essere, per così dire, “matematicizzato” con gli usuali sistemi di misura, né con quello metrico né con quelli dei pesi e dei volumi: sottraendo il peso, sfuggendo la massa, resta solo l’energia, l’essenza che si trasmette e appare all’osservatore. Una realtà (l’opera) lieve, riservata, apparentemente fragile, come le “steli”, i “nidi”, le “gabbie”, oppure, invertendo le modalità del passaggio dal pesante al leggero, che realizza, per esempio nei “luoghi dei punti”, la “concretizzazione” del “punto”.
Questa ricerca di concretezza o, meglio, di “individuazione” la troviamo nella “definizione verbale” dell’opera che Icaro preferisce chiamare “nome” e non “titolo”, perché così l’opera è, acquista il suo essere, superando la condizione di “oggetto”, cui solo si può dare un “titolo”, e ottenendo, con il “nome”, una propria “individualità”, divenendo “soggetto”: qui entra in gioco un’altra modalità che della leggerezza è parente stretta, l’ironia. Un’ironia, anche questa, “accennata”, mai tragica né sarcastica, “delicata”, anche se “penetrante”, che percepiamo sia negli equilibri “instabili” degli accostamenti dei materiali, sia nelle parole usate per le “denominazioni”.
L’ironia, che notoriamente è un fondamento del pensiero socratico, ci porta subito al pensiero di un contemporaneo di Socrate, a Protagora che sosteneva “essere l’uomo misura di tutte le cose”, affermazione, anche questa, fatta propria da Icaro che, in altro contesto e con altro senso, si serve delle misure del proprio corpo per determinare quelle delle sue sculture — con le dovute differenze, una sorta di lecorbusieriano MODULOR. È il corpo, quindi, che serve per stabilire l’altezza, la larghezza, eccetera, delle opere, oppure che, in una sua parte, diventa il prius, la sostanza (6) della “cosa” realizzata, così abbiamo opere con la forma, come detto più sopra, della mano, del dito, e di altre parti.
Arriviamo, per questa via, alla “carta”; ma prima dobbiamo ricordare un altro elemento, emblematico della “leggerezza”, usato da Icaro, la rete. Reti che, come abbiamo detto, “trattengono” il marmo, duro e pesante ma reso più “aereo” con tagli opportuni; ma anche reti più “autonome”, cioè con maggior fondamento ontologico, se così si può dire, che vanno, con le loro volute, ad “accennare allo spazio”, ad “indicarlo”, o a “sorreggere” un piccolo elemento di gesso o un foglio di carta.
La carta, ecco. Questa viene già usata nel lontano 1964 per una sorta di alto/bassorilievo (il foglio di carta veniva “graffiato”, si creavano così delle linee/solchi di varie misure e di diverse direzioni), e dieci anni dopo per delle vere e proprie sculture (costruzioni a tutto tondo con tre dimensioni), realizzate con fogli di carta opportunamente plasmati sulle mani, chiuse, aperte, semichiuse, destra, sinistra, eccetera.
La carta quindi come il gesso, cioè come materiale “plastico”, che va altrettanto “rispettata” nelle sue qualità e possibilità, perché è solo così che “può dare il meglio di sé”, dice l’artista (7).
Ma il foglio è anche “superficie”, la carta può essere di diverso tipo, Fabriano o pelleuovo, o altra ancora, comunque il fondamento è costituito da una superficie bidimensionale, anche se si tratta, dice ancora Icaro (8), di “una superficie teorica”, infatti può diventare, da bi-, tri-dimensionale e poi è proprio su quello “spazio teorico” che si esercita la mano a fare. Questa può fare uno scarabocchio, un appunto, un divertissement, un progetto, un’immagine “seria”, oltre che “seriosa”, ed altro ancora.
Abbiamo così leOmbre di pensiero, che da anni accompagnano l’artista, perché queste sono:
…i frammenti
caduti nel tempo,
sparsi nello spazio,
non si ricompongono
non si riferiscono
non illustrano
non fingono,
continuano ad emergere,
si susseguono,
incalzano.
E come le farfalle
vivono
un ultimo
atto di vita… (9)
“Frammento” ed “ombra” sono i due concetti chiave per addentrarsi nel mondo disegnato di Icaro. Barthes una volta, parlando(10) delle grafiche di Steinberg, affermò: “(…) Sono disegnati senz’ombra. Miticamente, l’assenza di ombra è propria di esseri inumani, contro natura (l’Uomo che ha perduto la propria ombra è marcato dal Diavolo, e la Donna senz’ombra è sterile)”. Ma Icaro contorna sempre (o quasi) di ombre i suoi disegni. Di più: a marcare la forza del disegno, questo viene definito “ombra di pensiero”, così come, se c’è la luce, che poi è la vita, non c’è ente che non abbia l’ombra, che è parte indissolubile di quell’ente stesso, una sua inscindibile proiezione, così il disegno è inscindibilmente legato al pensiero, evidenziando il tal modo le sue “nobili” origini concettuali.
E sono anche “frammenti”: infatti per Icaro e, ovviamente, non solo per lui, la realtà è un insieme di frammenti, non si dà, se non per astrazione, una Realtà, bella e definita, totale e assoluta, come l’Essere di Parmenide(11) identificato con una “rotonda sfera (…) in ogni parte identica a se stessa”, non bisognosa di nulla, perché mancante di niente; al contrario è proprio della natura umana avere non solo una conoscenza frammentaria, ma anche la vita — la vita concreta, quotidiana, come quella “nomade” di Icaro stesso testimonia — a “segmenti”, e l’arte anche non può mai assolutizzarsi, provenendo da una ricerca continua, da un’insoddisfazione perenne che spinge incessantemente verso una meta che, se raggiunta, significherebbe la fine (fatto che è speculare all’andamento della vita stessa, la quale c’è, si svolge, “per la morte”, come gli Esistenzialisti misero bene in luce).
Orbene, il lavoro di Icaro, che rigorosamente si dipana negli ultimi quaranta anni, si presenta come un insieme di frammenti; frammenti, se ci si passa il bisticcio, non “frammentari”, cioè incompiuti o indefiniti (12). Ancora una volta Icaro si dimostra “eracliteo”, perché anche per lui “acque sempre nuove lambiscono quelli che entrano negli stessi fiumi” (13).
Allora per concludere: guardando una scultura o un disegno di Paolo Icaro, dopo aver superato l’emozione lirico-sentimentale che indubbiamente si prova, possiamo usare le parole del “grande vecchio” Adorno (14): “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità”.