Titolo Anno 18 Numero 55 inverno 2007/2008
Astrazione sensibile
L’opera di Pino Pinelli può essere compresa secondo una progressione strettamente logica nel suo farsi, proponendo un percorso che pare però via via abbandonare le premesse rigorose e definite di una ipotesi di lavoro inclusa fra le esperienze propriamente “analitiche”, per giungere a una sempre più disinibita espressione del colore e della forma sulla parete e nello spazio. I rimandi che collegano tra loro i diversi momenti della sua opera come passaggi necessitati da ragioni intrinseche al fare sono certo molteplici, a conferma di una continuità evidente nel suo lavoro, ma anche della possibilità di ritrovare sempre attive le intuizioni originarie nel loro sviluppo. Basti guardare ad alcuni esiti recenti della sua opera, raccolti in una mostra personale tenutasi poco prima della scorsa estate a Milano, con quella parola d’avvio del suo verbo, Pittura GR del 1976, dove quattro segmenti a L, in flanella, dipinti - ma verrebbe quasi da dire rivestiti - di grigio e disposti in modo da incorniciare uno spazio vuoto, imitavano la forma del quadro, ingannando sul senso dell’operazione, se essa cioè fosse da intendersi come pittura sagomata, come definizione di uno spazio pittorico virtuale o come interrogazione della pittura in termini teorici.
Nella più recente mostra, invece, sottili e allungate strutture rettangolari emergevano dalla disposizione di corpi sagomati in superficie, intrisi di quel tipico colore rosso vivace spesso usato da Pinelli, secondo una delle modularità caratteristiche della sua pratica operativa da alcuni decenni, a creare nuovamente uno spazio interno vuoto, definendosi come cornice ispessita e richiusa. L’accento sembra porsi ora sul dato epidermico, esteriore quasi, vien da dire, perché di quell’intervallo, di quello spazio vuoto ci pare di essere saturi, di averlo inglobato, di non cercarne ragioni mentali, quanto fisiche, sensuali o sensibili. Il passare del tempo, ma soprattutto l’evoluzione di un percorso che se era discorso ora è racconto, affabulazione, fa sì che l’opera di Pinelli si ponga sul versante del fare, più che dell’analisi, o si spieghi come fare, più che riflessione sul fare, come forse dall’inizio, da sempre, comunque è stato.
Una riprova di ciò può derivare dal prendere in considerazione i lavori che segnano un momento temporale intermedio, andando a cogliere in alcune sue realizzazioni degli anni Ottanta un passaggio, se non proprio determinante, almeno illuminante, nel mediare tra i due poli appena considerati. Giusto a metà di quel decennio, che è tempo di pittura e di coinvolgimento emotivo, se non espressivo, almeno nei suoi momenti più visibili, Pinelli concentra la sua attenzione su altri modelli di delimitazione dell’area del quadro, realizzando altre “cornici”, volutamente e bruscamente interrotte, anch’esse (per lo più) rosse, che segnano lo spazio reale, ma anche il suo legame con quello virtuale, che dalla concezione della pittura come elemento bidimensionale a parete passa allo spazio in sé.
Questi diversi lavori, scanditi nell’arco di quasi trent’anni, che paiono esercitazioni diverse attorno a un soggetto unitario, quale quello della pittura come cornice o limite, seppure sempre aperto, entro il quale includere o dal quale immaginare una definizione dello spazio, costituiscono forse i momenti più specificamente avanzati a qualificare un atteggiamento riflessivo o, come si usava dire negli anni Settanta, “analitico” nei confronti della pittura presa come oggetto a sé, per quanto interno all’idea stessa di opera. Fare e contemporaneamente teorizzare sul fare potevano apparire, anche nel caso di Pinelli, momenti complementari di un atteggiamento nei confronti della pittura, ma sarebbe riduttivo intendere il suo lavoro all’interno di quella modalità operativa, che rischierebbe di circoscriverlo a un momento dato, storicizzandolo ma anche limitandolo. Piuttosto, come lo stesso modo di intendere l’opera quale forma compiuta e nello stesso tempo aperta, quel carattere “analitico” si apre ad altre ipotesi, in primo luogo, appunto, di natura “spaziale”.
Accennare alla qualità “spaziale” della sua opera significa in certo senso indicarne la qualità propria, che si intenda come “appropriazione” dello spazio attraverso la sua frammentazione, o come un’indagine sulla natura polidimensionale dell’ambiente che risulta modificato dall’opera, aprendosi la pittura a un dialogo compiuto con il carattere specifico del luogo o testimoniandone la qualità complessa, per effetto del suo intervento, come interpunzione o nota a margine di un “testo” costituito da quella immateriale sostanza di cui le pareti di un luogo dato sono cornice o limite virtuale, ma che si rivolge all’intera strutturazione o percezione delle diverse dimensioni fisiche e plastiche di un determinato ambiente.
In merito a questi aspetti della qualificazione spaziale della pittura di Pinelli sono ancora oggi tra le osservazioni più puntuali quelle avanzate da Giovanni Accame nel testo per la monografia sull’artista del 1991, nella quale, a corollario delle considerazioni sul grado di specificazione in termini di “installazione” delle sue opere fondate sulla “frammentazione” come forma di relazione con lo spazio, egli afferma: “Per Pinelli l’ambiente è sempre una porzione di spazio teoricamente infinito, come non finito è l’attraversamento che le sue opere intraprendono. Non è quindi possibile installare un’indicazione di percorso in una porzione d’infinito, ma fare di ogni occasione un accadimento in cui l’opera ha la padronanza di quel momento…”(1)
Per questo, tutta la parabola di composizioni ottenute per “frammentazione” o “disseminazione” delle tracce concrete e plastiche di pittura nello spazio che rappresentano, dalla metà degli anni Settanta in poi, il principio fondamentale su cui si struttura e si dispone ogni sua creazione e ogni suo intervento, pensato come segno che si definisce mentre si elabora, e come elemento espressivo che va a leggere uno spazio, per quanto la sua origine sia sempre, o quasi sempre, autonoma rispetto al luogo in cui trova a essere collocato, ha una matrice intrinsecamente “spaziale”, che non è superfluo apparentare, ancora una volta, alle esplorazioni fontaniane – basti pensare alla via aperta da Fontana alla fine degli anni Cinquanta con i “Quanta”.
Una vocazione “spaziale”, però, che se manifesta indubbi riferimenti a quell’ascendente, ha una sua originalità e indipendenza, che si misura con le tante ipotesi di rapporto con l’opera relazionata o installata in un ambiente secondo le molteplici vie in cui questa modalità operativa si è venuta svolgendo nei decenni successivi.
In particolare, una realizzazione che ha manifestamente messo in luce un’inclinazione onnipervasiva dello spazio, intrinseca all’opera di Pinelli, è stata la trasformazione attuata nei locali della galleria A arte Studio Invernizzi a Milano nel maggio 2003. In quell’occasione al piano superiore dello spazio espositivo Pinelli ha semplicemente sistemato opere bianche sulle pareti bianche, mentre al piano inferiore ha disposto le pitture, di un intenso giallo frumento, su pareti interamente dipinte dello stesso colore, generando un effetto ottico e sensuale unitario, che avvolgeva e coinvolgeva, non solo o non tanto in una riedizione delle possibilità di elaborazione di una monocromia che va a confondere l’oggetto – l’ambiente – con il mezzo – la pittura, quanto con l’obiettivo di creare una sensazione fisica, dove la tattilità dello sguardo trovava una sua naturale sollecitazione. Di “accecamento” prodotto dalla luce parla nel catalogo di quella mostra Luca Massimo Barbero, insistendo sul modo in cui l’azione dell’artista, liberata, si può dire, in quel frangente da qualsiasi ragione troppo intellettuale, se ve ne fosse stato bisogno, andava a toccare direttamente i sensi, come l’artista stesso in più occasioni ha tenuto a sottolineare.(2)
La coincidenza tra spazio e pittura andava a consumarsi, sottolineata dal segno di quei semplici incroci aggettanti e ritmati, a loro volta, da solchi diagonali, che nella loro disposizione dispersa e dispersiva accentuavano il valore dinamico di una composizione che andava a impegnare e ampliare le possibilità del luogo, rivolgendosi innanzitutto alla percezione diretta, fisica, di chi in quel luogo sostava, trascorreva e riceveva l’energia di quel colore-spazio. Si è trattato del più esplicito e diretto, finora, estrinsecarsi di una vocazione spaziale che si manifesta comunque in ogni lavoro dell’artista, pensato e realizzato per dinamizzare, puntualizzare o reinventare la parete e l’ambiente in cui esso viene collocato.(3)
Non si è trattato di un intervento che si possa considerare l’inizio di una nuova fase della sua opera, ma di una messa in opera che ha tracciato una possibilità, quasi una dimostrazione esplicita di come la funzione del colore e della forma siano da considerarsi nel suo lavoro in termini essenzialmente spaziali, in quella fusione fra sensibilità del colore-materia e aspirazione a trasformare la sostanza del luogo che da essa emana. Tra le diverse affermazioni dell’artista a proposito del suo lavoro, possono valere alcune osservazioni desunte da una conversazione, ancora con Giovanni Accame, pubblicata nel 1993, dove Pinelli esplicita: “Faccio pittura plasmando con le mie mani la materia e il colore, creando con gesto pittorico il suo corpo solido, facendo in modo che la pittura si autosignifichi”, precisando anche “Dei suoi canoni costitutivi ho abbandonato alcuni elementi rassicuranti, la tela e il telaio; ho mantenuto, invece, il legame con lo spazio, non circoscritto, illimitato, con la forma e il colore…”(4)
Se i presupposti teorici e “analitici” non sono, cioè, dimenticati, essi vengono però assorbiti in una disposizione a operare in direzione fisica e attiva, dove da sempre si situa la ricerca continua di un punto d’incontro fra la sensibilità delle mani e dell’occhio e la concezione di una pittura che travalica se stessa, per dispersione, disseminazione, emanazione di pulsioni altre, che non possono essere convogliate all’interno di un limite o di una “cornice”. E tale disposizione a una sintesi che va oltre le definizioni teoriche e analitiche fa dell’opera di Pinelli un valido punto di confronto per gli svolgimenti di una pittura che ha messo in discussione se stessa nel suo stesso farsi, trovando nella sua natura intrinseca la ragione di una sua continuità come fatto generativo e proiettivo.
Note:
1 G. M. Accame, Pino Pinelli: Continuità e disseminazione, Pierluigi Lubrina Editore, Bergamo, 1991, p. 24.
2 Cfr. L. M. Barbero, Pino Pinelli. L’ombra della percezione, cat. della mostra, Arte Studio Invernizzi, Milano, 6 maggio – 7 luglio 2003, anche per i brani di conversazione con l’artista ivi citati, riguardanti l’elaborazione e la realizzazione di quel progetto.
3 Per questo – e mi scuso del rimando personale – una decina d’anni fa ho voluto includere Pinelli all’interno dei dieci artisti ai quali ho chiesto di interpretare uno spazio di una delle ville storiche della Provincia di Milano incluse nel progetto Lo spazio ridefinito, dove il suo intervento era essenziale, all’interno delle possibilità d’uso della pittura in funzione spaziale, come mi ha confermato constatare le potenzialità di trasformazione del luogo che in senso più diretto ha effettuato alcuni anni dopo, appunto nell’intervento-installazione del 2003.
4 Non dipingi più, ma fai pittura (conversazione tra Giovanni Maria Accame e Pino Pinelli), Edizioni Valentino Turchetto, Udine, 1993, s.i.p.