Urban Anno 9 Numero 75 marzo 2009
La nuova Young British Art non è più british. Il suo inventore,Charles Saatchi, adesso guarda a est, alla ricerca di giacimenti creativi inesplorati.
Il colpo più grosso l’ha fatto nel 1992 con la Young British Art, ovvero l’invenzione di un fenomeno artistico internazionale, molto ben seguito e pompato dai media, diventato persino identitario della resurrezione culturale e sociale della Gran Bretagna, tanto che questa gli ha poi costruito un mastodontico tempio sulle rive del Tamigi: la Tate Modern.
Da allora Charles Saatchi, che di mestiere fa il pubblicitario e per la passione del business il collezionista, è considerato un re Mida che trasforma in oro quello che tocca oppure un oracolo il cui responso sancisce il valore di un artista, o anche lo show man “cui piace giocare il ruolo del provocatore dell’arte”, come lo definisce The Times.
Fu lui, infatti, a organizzare la mostra-scandalo di fine secolo: Sensation, allestita nel 1997 alla Royal Academy con la statua di papa Wojtyla accasciata a terra, colpita da un meteorite, realizzata dal nostro Maurizio Cattelan.
Il quale, in una recente intervista al Corriere della Sera, ha dichiarato: “I valori stanno tornando a essere il nuovo punto di riferimento e questa è una delle ragioni della vittoria di Obama. Quando vediamo un terrorista che non esita a farsi saltare in aria siamo costretti a chiederci: saremmo anche noi capaci di farci esplodere per difendere quello che abbiamo? Qualunque cosa creativa verrà da lì, da dove c’è la fame, da dove ci sono le motivazioni. Se c’è uno capace di farsi esplodere, vuoi che non ci sia uno capace di fare altrettanto con l’arte?”.
Ed ecco Charles Saatchi presentarsi puntuale all’appello: la mostra in corso alla nuova Saatchi Gallery di Londra, uno spazio di 6500 metri quadrati su tre piani nel Duke of York’s Headquarter a Chelsea, si intitola appunto Unveiled. New art from the Middle East ovvero “Senza velo. Nuova arte dal Medio Oriente” e raccoglie circa 90 opere di 19 artisti, la maggior parte dei quali fra i 20 e i 30 anni. In realtà sarebbe stato meglio dire che quest’arte ha a che fare con la cultura islamica perché il Medio Oriente di Saatchi comprende, per esempio, i palestinesi, ma non gli israeliani, e poi la Tunisia e l’Algeria che, sui banchi di scuola, abbiamo imparato a posizionare piuttosto in Africa.
Ma se Saatchi, al suo solito, cercava il clamore dello scandalo, era proprio sull’Islam che doveva puntare. Solo che, questa volta, lo scandalo non è arrivato anche se gli artisti selezionati ce l’hanno messa tutta impegnandosi nel consueto repertorio “incendia animi”: uomini nudi con la barba (segno di appartenenza alla religione musulmana) che si rotolano l’uno sull’altro in abbracci omosessuali (Ramin Haerizadeh); donne identificabili solo attraverso strumenti del lavoro casalingo come guanti di gomma, ferro da stiro, scopa (Shadi Ghadirian); statue che rappresentano le prostitute di Teheran (Shirin Fakhim) o ancora un’intera stanza di donne inginocchiate in preghiera avvolte nei loro chador d’argento ma che, al posto del volto, hanno tutte un anonimo buco nero (Kader Attia).
Come per qualsiasi altra mostra, il dibattito si è dunque spostato su questioni di stile e, soprattutto, sulla disputa intorno all’originalità. Se dalla Saatchi, infatti, insistono nel sottolineare la “purezza mediorientale” di questi artisti, i prestiti da Duchamp, Picasso, Rauschenberg e persino Goya, sono evidenti. Ma questo è normale: tutta l’arte nasce dall’arte e fin dai tempi di Giotto è lo stile vincente a fare scuola e a condizionare gli altri. Tanto più che oggi, come teorizza dalla stessa Londra Nicolas Bourriaud, il curatore della Triennale in corso alla Tate Britain, ci muoviamo in una cultura che nasce già globalizzata e creola fin dalle sue origini. In poche parole, grazie a internet, ai viaggi, alle televisioni satellitari, non ha più senso parlare di “Medio Oriente originale”. Caso mai si può riflettere sulle tecniche, perché appare evidente che i materiali usati per queste opere sono per lo più poveri. Là dove gli artisti occidentali si rivolgono quasi tutti a laboratori iper specializzati, qui la tecnologia è semplice o del tutto trascurata e l’aspetto generale è quello del “fatto in casa”. Resta da verificare se là dove c’è più povertà e più necessità di esprimersi, anche le risposte sono davvero più forti.