Urban Anno 13 Numero 116 settembre 2013
Quanto vale un brand del terrore? Anche la violenza ha bisogno del marketing o è il marketing a essere intrinsecamente violento? Un libro sulla grafica dei gruppi terroristici cerca di rispondere
Ci vuole coraggio a pubblicare un libro come quello che 24 Ore Cultura propone fra le novità di questo autunno. Si intitola Branding terror ed è la prima raccolta completa di loghi utilizzati dai gruppi di rivolta e dalle organizzazioni terroristiche mondiali, da al-Qaeda al Fronte Popolare per la liberazione della Palestina, dalle BR ai Tamil Tigers.
Provocazione? Desiderio di shokkare come ha fatto lo scorso luglio il magazine americano Rolling Stone mettendo in copertina il volto del ragazzo ceceno, autore dell’attacco terroristico alla maratona di Boston? Certo la ricerca dell’originalità per farsi notare nel difficile mercato editoriale può aver giocato la sua parte, ma l’operazione è stata gestita con l’imprimatur dell’autorevolezza. Innanzi tutto coinvolgendo un’autorità indiscussa della grafica: Steven Heller, ex art director del New York Times nonché autore o co-autore di oltre 120 libri sul design e la cultura popolare. I testi, poi, sono stati affidati ad Artur Beifuss, che ha lavorato per le Nazioni Unite come analista del contro-terrorismo, e Francesco Trivini Bellini, direttore creativo che ha sviluppato i molti marchi.
Ogni logo è presentato da una scheda che descrive l’ideologia del gruppo, la leadership e il modus operandi. In fondo al volume si trova anche una cronologia delle più eclatanti azioni terroristiche e un glossario. Nessun giudizio politico viene emesso: le valutazioni di merito sono solo estetiche.
“La violenza estrema commessa in nome di questi simboli sminuisce il fatto di scriverne in termini di estetica e valore produttivo, al punto da sembrare sciocco e irrilevante”, scrive Steven Heller, mostrandosi consapevole delle possibili accuse di spregiudicatezza.
“Eppure questi gruppi terroristici sono tutti marchi, e ottengono una certa possibilità di sopravvivenza grazie a metodi legati al branding. Il branding è uno strumento senza coscienza o moralità; può essere usato a scopi sia positivi sia negativi, a volte in contemporanea. Sono immagini che esistono per innescare una reazione morale. Ciò che sembra innocuo potrebbe essere un espediente simbolico per ridurre l’orrore. E ciò che pare alquanto minaccioso può essere un modo ugualmente simbolico di insinuare terrore nel nemico e rinsaldare la lealtà dei seguaci”.
Così, sempre secondo Heller, la bellezza semplice della bandiera dell’Esercito di Maometto, nega visivamente la violenza di un gruppo che ha ucciso centinaia di persone in Kashmir. Allo stesso modo, il simbolo di Jemmah Anshorut Tauhid è così kitsch da sembrare, dice Heller, piuttosto il logo di un sito internet di shareware. Aquile e armi sono fra i cliché più abusati e se i loghi delle Liberation Tigers di Tamil Eelam soffrono di un eccesso di ritocchi con Photoshop, sempre a giudizio di Heller, la bandiera verde con la stella gialla in un cerchio rosso, disegnata dal National Democratic Front of Bodoland, è impressionante da un punto di vista tecnico.
“Il logo è il punto di contatto essenziale tra il pubblico e qualsiasi prodotto, gruppo o organizzazione. Che cosa sarebbe la Chiesa cattolica senza il crocifisso (in origine considerato fuorilegge)? Adolf Hitler avrebbe comandato la Germania senza l’uso rituale della svastica, oggi fuorilegge in quel Paese? E cosa sarebbero gli Stati Uniti senza le stelle e le strisce?”. Con tale approccio neutrale, da esperto della comunicazione visiva, Heller ci apre gli occhi su come un logo di successo sia composto in parti diseguali di mitologia e verità, e Artur Beifuss ci spiega che il “branding”, cioè l’identità visiva di un gruppo terroristico, è importante tanto quanto la sua segretezza. Forse, capire come il terrore si muova con le stesse logiche con cui le aziende vendono la riconoscibilità dei propri prodotti, potrà sottrargli quell’alone di fascino perverso che irretisce alcuni individui. Alzare il velo sulla banalità del marketing potrebbe far crollare qualche falso mito.