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Urban Anno 12 Numero 110 dicembre - gennaio 2013



Fabbrica 2.0

Susanna Legrenzi

Piccole catene di montaggio, microlinee di produzione. È l’ultima tendenza: una creatività autarchica che dal prodotto si spalma sul processo





SOMMARIO N. 110

7 | EDITORIALE

9 | ICON

11 | INTERURBANA
al telefono con Alessandro Piccolo

13 | PORTFOLIO
Seconda lettura
a cura di Floriana Cavallo

20 | CULT

22 | PHILIPPE MALOUIN
di Maria Cristina Didero
foto Mattia Zoppellaro / Contrasto

27 | DESIGN
di Olivia Porta

28 | ARTISTICAMENTE SCORRETTO
di Susanna Legrenzi

32 | MUSICA
di Paolo Madeddu

34 | CUCINA VISTA L.A.
di Roberto Croci
foto Alex Hoerner / Trunk Archive

38 | FABBRICA 2.0
di Susanna Legrenzi

42 | ON THE ROAD PORTRAIT
foto Tatiana Uzlova / Luca Campri
styling Ivan Bontchev

47 | LIBRI
di Marta Topis

48 | SOTTO IL CIELO DI LIMA
di Ciro Cacciola

52 | MANI IN ALTO
foto Luca Campri
styling Ivan Bontchev

62 | DETAILS
di Ivan Bontchev e Tatiana Uzlova

65 | NIGHTLIFE
di Lorenzo Tiezzi

67 | FUORI

74 | ULTIMA FERMATA
di Franco Bolelli
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c-fabriek Creative Factory ohaly vailly 2 production lines

c-fabriek Creative Factory vailly shleves 2

c-fabriek Creative Factory ohaly lamp

Sono i protagonisti di una rivoluzione che soffia dal basso. Li chiamano makers: nuovi artigiani. Poco importa se piallano legno grezzo o progettano in prototipazione rapida. Dicono siano loro gli artefici della terza rivoluzione industriale, quella che alla produzione di massa preferisce la piccola serie, da progettare handmade in chiave open-source. Il fenomeno è in ascesa. E, se è questa la tendenza, non crea stupore che anche nella febbrile Eindhoven, imbattibile talentificio olandese, i makers abbiano conquistato terreno. È il caso di C-Fabriek, progetto di punta dell’ultima Dutch Design Week: qualcosa di più di un prodotto, piuttosto l’idea di un nuovo modo di pensare un modello di fabbrica, fatta di linee di produzione, autarchiche, partecipate, con le mani in pasta.
Per farsene un’idea basta pensare a una sorta di Tempi Moderni remix: 14 marchingegni, piccole/grandi macchine leonardesche dallo scheletro in legno, dove si parte dalla materia prima e si arriva al prodotto finito, sotto l’input dei designer, con la complicità del pubblico. La novità è che Chaplin non viene inghiottito dagli ingranaggi, ma partecipa al gioco.

Il format è un working in progress che ha riunito, per ora, 25 talenti coordinati dai giovani designer Itay Ohlay e Thomas Vailly. Per la preview, Itay e Thomas hanno scelto una fabbrica dismessa: pareti sbriciolate, una scala di ferro, pavimenti di vecchie graniglie, gente che sale, gente che scende, i colori e l’atmosfera di un mondo del lavoro che non esiste più, quasi un’anticamera del progetto. Per ogni filiera, una sorpresa. È il caso di Inner Fashion by Laura Lynn Jansen, Master alla Design Academy: una macchina per la produzione di abiti. Sui lati è composta da tre stand di metallo bianco. I primi due riordinano una gamma di tessuti trasparenti: quelli estensibili sono in formato XXS, quelli indeformabili in taglia XL. Dall’altro c’è lo shop con il “prodotto” sfornato in tempo reale. A separare le due aree è l’atelier: un pallone gonfiabile oblungo. Laura svita la valvola, lo Zeppelin prende volume, stira il tessuto interno fino a farlo aderire al tessuto già sagomato, lasciando intendere che è il corpo, con tutte le sue imperfezioni, a dare forma all’abito e non viceversa.
Cliente sottile, palloncino sottile; cliente corpulento, pallone colmo di elio… Nessuno si nasconde, in molti sorridono quando lo Zeppelin diventa gigante e sembra spiccare il volo.
Inner Fashion è stata ingegnerizzata da Thomas, che per C-Fabriek ha firmato anche Line02: una catena di montaggio a bassa tecnologia, in dialogo tra modellazione 3D, prototipazione rapida, artigianato e design. Gli ingredienti base sono fogli di lattice che vengono allungati, ridimensionati, soffiati, creando così un’infinità di forme plastiche fluide e organiche. Da storyboard, la sequenza è questa. Scena prima: Thomas gonfia il lattice. Scena seconda: Thomas traccia dei segni a pennarello sulla superficie. Scena Terza: Thomas tende il tutto con pinze metalliche, andando a plasmare il volume di un trapezoide da inserire in una sorta di giostra stellare. Scena quarta: Thomas rabbocca questo strano buffo oggetto con un impasto di colori e crete che solidificandosi andrà a creare un corpo solido. Un vaso, uno sgabello, un giunto, chissà? Cagliostro ha mescolato le sue polveri e basta questo perché da un meccano fantastico possano nascere cose nuove.
Nella vecchia fabbrica di Eindhoven, Line02 ha lavorato al fianco di Line 01, la filiera di Itay Ohlay, dove l’imballaggio in polistirolo dei prodotti viene utilizzato direttamente come stampo, dando vita a contenitori dalle forme voluttuose.
Due stanze più in là, è il giovane designer italiano Francesco Zorzi che, con Invisible Line, allarga il campo d’azione alla grafica. La sua filiera prevede la produzione di illustrazioni monocromatiche. Tutti gli attrezzi del mestiere sono utilizzati per disegnare linee, forme, tracce, in una scala di grigi. Non c’è stampante, c’è solo calore. Il barbatrucco sono fogli di carta termosensibile. Il processo è controllato in parte, e non è mai perfetto. Uomo e macchina diventano un’entità sola. Il caldo genera segni; il freddo ci lascia un foglio bianco.

Dalla grafica al food, è solo una rampa di scale. Shaping Sugar è il nome della linea di produzione progettata da Amélia Desnoyers, studi all’École Nationale Supérieure des Beaux Arts di Parigi, un diploma professionale in pasticceria. Il profumo è quello dello zucchero filato. Nella stanza si brinda. I calici hanno colori trasparenti, delicati. Dalla reazione chimica di zucchero, acqua e glucosio riscaldati insieme a 160 gradi, Amélia ha ottenuto una materia prima simile al vetro. Ci allunga un bicchiere: “È dolce, sai?”. Basta voltare lo sguardo per scoprire che, nella fornace, dopo aver sorseggiato un bianco olandese, qualcuno sta sgranocchiando il calice prodotto con le sue stesse mani non più di dieci minuti prima.
Ma non solo. C-Fabriek è anche Eugenia Morpurgo che forgia babbucce su misura, senza colle né filo. Lucas Mullie & Digna Kosse, autori di un tavolo di dimensioni per la conservazione dei cibi, che funziona, allo stesso tempo, come una cucina dove il cibo si prepara da solo. O Juan Montero che ha processato un orologio che produce e distrugge un oggetto in ceramica in un ciclo di 24 ore. Tra le “catene di montaggio” più sorprendenti merita una nota Shaping Bodies Line. Gli autori sono Bas Geelen ed Erik Hopmans. Il punto di partenza è la fotografia di quella parte di mondo che lavora tutto il giorno al desk per poi correre in palestra a rivitalizzare i muscoli. La sfida è riportare la “fatica” – ma anche l’ambizione a un ideale di bellezza – nella dimensione della produzione, facendo forza sull’esercizio fisico, smaterializzato dall’introduzione dei processi di automatizzazione. Il risultato è una “fabbrica” dotata di cyclette, vogatori, tapis roulant autoprodotti che generano l’energia necessaria per levigare il legno, lucidare i metalli, forgiare mattoni. Bas ed Erik pedalano di brutto, gli ingranaggi si mettono in moto. La produzione torna a essere appannaggio dell’uomo. Una storia di muscoli ma anche un’officina di pensiero. Vogare per lucidare metalli può essere anche un’opzione. Sottoscrivere una dichiarazione d’indipendenza dal design industriale così come lo abbiamo conosciuto è un atto corsaro di una certa rilevanza. Sarà la crisi. Saranno i makers. Forse, chissà, ma una terza via al lavoro esiste davvero.