Urban Anno 12 Numero 109 ottobre 2012
Periferie degradate, edifici in rovina, paesaggi desolati. Sono i non luoghi dove prendono senso gli interventi dell’artista francese, in novembre
a Milano.
Una volta, i tipi come Cyprien Gaillard, la società li emarginava. Se andavi in giro con la tua banda di amici a lanciare estintori o se devastavi il parco di Vassivière con un selvaggio free-party animato dalla musica elettronica psychobilly di Koudlam e per di più pretendevi di essere un artista, ti isolavano e ti spingevano ai margini a vivere una vita bohémienne fatta di fame e di stenti, come successe a Verlaine, van Gogh, Gauguin, solo per citare tre esempi illustri e dimenticare tutti gli altri dimenticati.
Oggi, al contrario, ti premiano. Dopo essersi fatto conoscere per le sue “opere d’arte” vandaliche, dopo aver messo a punto una strategia artistica basata sul furto e la rottura delle regole, soprattutto della burocrazia, nel 2008 il quotidiano britannico The Independent indicava il giovane Cyprien, nato a Parigi nel 1980, tra i venti migliori artisti emergenti; nel 2010 vinceva il Prix Marcel Duchamp del Centre Pompidou, il premio più importante per l’arte contemporanea in Francia; uno dopo l’altro, inanellava l’Audi Talent Awards (2007), il Premio Karl-Stroeher (2010), il Premio Accademia di Jacques-Louis David (2010), e, ultimo, il Premio per la Giovane Arte della Galleria Nazionale di Berlino (2011). L’elenco dei musei che hanno esposto le opere di Gaillard è ancora più lungo e attraversa i continenti, dalla Tate Modern di Londra al Mori Art Museum di Tokyo.
Ora il giovane “genio vandalico”, dopo la grande personale del 2009 a Siena, arriva anche a Milano, su invito della fondazione Nicola Trussardi che gli ha servito su un piatto d’argento una di quelle location “maledette” che Gaillard deve solitamente andarsi a scovare o scavare, come ha fatto con il bunker della seconda guerra mondiale, tirato fuori dalla sabbia sventrando una collina di Scheveningen, nei Paesi Bassi, trasformato in una scultura in negativo violando ancora una volta il paesaggio, come ai tempi della guerra. Cosa si poteva offrire di meglio, a uno così, di una caserma? Gaillard prenderà possesso del panificio militare della caserma XXIV maggio di Milano e lo riempirà di video, fotografie, immagini e suoni che creeranno un percorso caotico e devastato, dove il silenzio si alternerà a rombi improvvisi.
Tuttavia la caserma sorge in uno dei quartieri più signorili di Milano, via Vincenzo Monti, in centro: non si sa dunque se la scelta di Gaillard abbia dovuto tener conto del marchio Trussardi per cui sarebbe stato improponibile l’abbinamento con lo squallore periferico di Baggio o del Gratosoglio, o se rappresenti la conferma che Milano, come Atene, è l’unica città ad avere la periferia in centro. Per Gaillard, infatti, il centro di una città è uno spazio di lavoro inedito. Il sublime sta nelle periferie e nei mostruosi blocchi di appartamenti della social-housing (filmati nel video Desniansky raion) che ormai vengono fatti saltare anche nell’Est europeo (“Un edificio o un monumento che crolla sono uno spettacolo talmente forte da cancellare tutto il resto. È l’eclissi della storia”).
“Quando visito città nuove non mi interessa il centro storico, mi interessano le periferie, i sobborghi, tutto quello che sta all’esterno. La periferia, con i suoi edifici monumentali e l’architettura modernista, rappresenta il crollo delle utopie, il fallimento e la necessità di ricostruzione. Tutto questo avviene in ogni parte del mondo, alla fine è una rappresentazione dell’uomo”.
E la natura, che compare spesso nei tuoi lavori?
“Più che alla natura penso al paesaggio. Quando guardi un paesaggio ti metti a confronto con te stesso, profondamente. E quello che scopri può essere distruttivo. Il paesaggio non è solo natura, c’è l’intervento dell’uomo, la relazione con lo spazio, il tempo, la storia. Un castello, una torre abbandonata, il rudere di un edificio, non appartengono più all’uomo, esistono di per sé e diventano un tutt’uno con ciò che li circonda. Questo è un punto essenziale del mio lavoro, che si concentra non tanto sui monumenti o sull’architettura, ma sul paesaggio come integrazione di elementi che lo rendono vivo, interessante. Questo mio interesse per il paesaggio è iniziato presto, quando ero adolescente, e passavo il tempo a fare graffiti e girare con lo skateboard in luoghi abbandonati, come gallerie ferroviarie completamente ricoperte di scritte. È stato il mio primo impatto con l’‘architettura negativa’”.
Suona un po' come l'estetica romantica che diede vita alla scuola e al gusto del rovinismo e che proprio in Francia ha avuto grandi interpreti come Jean Honoré Fragonard, Hubert Robert, Pierre-Henri de Valenciennes. Anche tu utilizzi paesaggi di quadri antichi che poi rielabori con rovine contemporanee.
“Se parliamo di rovine, i miei artisti preferiti sono il francese Hubert Robert e l’italiano Giovanni Battista Piranesi: il loro lavoro non è solo un commento sul paesaggio, ma la celebrazione di una sorta di incapacità di preservare tali bellezze naturali. Quindi un’occasione di esplorare molti diversi casi di fallimento. In particolare mi piace Hubert Robert, incarcerato con l’accusa di essere un rivoluzionario per aver dipinto la Bastiglia, che stava per essere demolita. La sua difesa si è basata su questioni formali: che la colonna della Bastiglia gli ricordava una colonna antica, che era l’elemento finale in un paesaggio pittoresco e che tutta l’Italia stava dipingendo questi soggetti in quel momento. Sosteneva che era un ottimo esercizio e che era interessato solo a dipingerla. Da un lato stava costruendo i giardini per la regina, ma dall’altro poteva essere visto come un pittore rivoluzionario. Mi piace molto che si potessero ancora giustificare le cose dicendo di essere un pittore di paesaggio e farla franca. Un sacco di altri artisti non hanno questo lusso. Il suo dipinto più famoso è la rappresentazione del Louvre come rovina, ma noi sappiamo che oggi è ancora in piedi”.
Quanto è importante la musica nei tuoi lavori?
“È essenziale: è quello che dà qualità al lavoro, operando come catalizzatore, come elemento di distorsione del tempo e dello spazio”.
Qual è la città ideale?
“Babilonia. L’antico Iraq è considerato la culla della civiltà, ma oggi Babilonia è diventata un sito militare americano. Gli archeologi stanno aprendo i sacchi di sabbia militari che sono stati utilizzati lì dai soldati per protezione e dentro trovano reperti, frammenti di vasi, tavolette. Nei secoli ci sono stati diversi momenti di distruzione di Babilonia: è un dettaglio molto interessante, perché aiuta a vedere le cose in prospettiva. Tutti sono attenti ai danni causati oggi dalle forze della coalizione, ma la distruzione della Torre di Babilonia è accaduta su una scala molto più grande. Pare sia stata distrutta da Alessandro Magno, nel tentativo di ripristinarla. La torre di Babele stava cadendo, e per restaurarla ha fatto rimuovere i mattoni per ricostruire la struttura in modo più stabile. Il problema è che lui è morto prematuramente, per cui non è mai stato in grado di ricostruirla. È così che è stata distrutta. La storia della distruzione di Babilonia è anche la storia del tentativo del suo restauro”.
Vedi il Medio Evo ancora vivo nelle cattedrali in rovina delle abitazioni sociali delle nostre periferie?
“Credo che il mio lavoro sia una celebrazione di questo tipo di concetto, come una spedizione archeologica del XXI secolo dove gli archeologi non hanno bisogno di lottare contro la vegetazione o la natura, dal momento che non esistono quasi più, ma devono lottare contro la nostalgia del passato, che invece ricresce di continuo”.
Che relazione hai con la tua famiglia?
“Amo paragonare il mio rapporto con i monumenti al rapporto con i miei genitori. Per esempio, quando sei un ragazzino, i tuoi genitori sono come monumenti. Essi rappresentano l’autorità, senza dubbio. Quando arrivi a 18 anni però sviluppi un tuo modo di giudicare le persone e acquisisci la capacità di guardare i tuoi genitori con occhi diversi: tuo padre non è il grande eroe che credevi e tua madre può essere anche molto vulnerabile. Il vero amore viene dopo, prima è solo un amore cieco. Il mio rapporto con i monumenti è la stessa cosa. Un sacco di gente non mette in dubbio che il rispetto e l’affetto nascono da lì, dal punto critico. Poi alla fine si guarda indietro e a quel punto si cede alla nostalgia, pensando a quanto fosse grande e bello il monumento che c’era prima che l’uomo lo distruggesse. Per me non è così. Non è mai stato così bello, e dobbiamo amarlo ora, com’è in questo momento”.
Non sei spaventato dal successo arrivato così presto?
Gaillard non dà una risposta, che del resto sarebbe un ovvio no. Con quel viso sfregiato in modo asimmetrico da una voglia e che sembra perfetto per uno dei personaggi maledetti di Leos Carax, ha già posato per riviste patinate e per Terry Richardson che ha immortalato Gaillard come testimonial della collezione di Supreme, la marca feticcio degli skater.
Altro che paura. Uno così, ha già capito tutto delle regole del gioco dell’art system.
Rubble and Revelation – Rivelazioni e Rovine
a cura di Massimiliano Gioni
dal 14 novembre al 16 dicembre 2012