Urban Anno 13 Numero 114 maggio 2013
A Venezia da giugno a novembre torna la mostra d'arte per eccellenza. E torna un'estetica sentimentale, stupefacente, asimmetrica. Intenzionalmente senza intenzione
È il sogno più vecchio dell’umanità: conservare tutti i ricordi, le cose, le parole, i numeri, le esperienze. In una parola il sapere, perché esso viene dall’accumulo di memorie. Per questo è nata la scrittura. Così sono nate le biblioteche e i cataloghi; i bestiari, gli erbari, le Wunderkammer, le collezioni, le fototeche, le emeroteche, gli archivi, gli armadi, le cassettiere, i notai, i genealogisti, gli storici, i ricercatori, gli archeologi, i musei, i file.
Ebbene, l’ultimo appassionato di questo vecchio sogno è il più giovane dei curatori cui sia stato assegnato il compito di allestire la Biennale d’arte di Venezia, la regina delle Biennali: Massimiliano Gioni, classe 1973, nato a Busto Arsizio e migrato a far carriera in America.
Per la 55esima edizione della rassegna che resterà aperta dal 1° giugno fino al 24 novembre ai Giardini, all’Arsenale e in diversi altri luoghi della città lagunare, Gioni ha rubato il titolo e l’idea all’artista autodidatta italo-americano Marino Auriti che il 16 novembre 1955 depositò presso l’ufficio brevetti statunitense i progetti per il suo Palazzo Enciclopedico, un edificio di 36 piani e 700 metri di altezza. Un museo immaginario che avrebbe dovuto occupare più di 16 isolati della città di Washington e ospitare tutto il sapere dell’umanità, conservando le più grandi scoperte del genere umano, dalla ruota al satellite.
“L’impresa di Auriti rimase naturalmente incompiuta – racconta Gioni – ma il sogno di una conoscenza universale e totalizzante attraversa la storia dell’arte e dell’umanità e accumuna personaggi eccentrici come Auriti a molti artisti, scrittori, scienziati e profeti visionari che hanno cercato, spesso invano, di costruire un’immagine del mondo capace di sintetizzarne l’infinita varietà e ricchezza”
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In realtà, il progetto del Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni è molto meno ambizioso dell’originale e si limita a includere circa 150 artisti da oltre 37 nazioni. Numeri non da record per grandi kermesse come le Biennali e per la vastità dello spazio espositivo a disposizione. Anche l’idea stessa è un rimaneggiamento della Biennale del 2001, Platea dell’umanità, curata dallo svizzero Harald Szeemann il quale per primo teorizzò l’apertura delle barriere tra artisti professionisti e dilettanti, insider e outsider. La priorità era l’immagine e l’immaginario, qualunque esso fosse, e il riferimento erano le idee dell’artista tedesco Joseph Beuys secondo il quale tutti gli uomini sono artisti, sempre potenzialmente creativi, essendo il capitale dell’umanità la somma di tutte le creatività individuali.
La mostra di Gioni si apre al padiglione Centrale ai Giardini con una presentazione del Libro Rosso di Carl Gustav Jung, un manoscritto illustrato al quale lo psicologo lavorò per oltre 16 anni: una raccolta di visioni e fantasie che introduce una riflessione sulle immagini interiori e sui sogni. La rappresentazione dell’invisibile è infatti uno dei temi centrali della mostra e ritorna nelle cosmografie di Guo Fengyi e in quelle di Emma Kunz, nelle icone religiose e nelle danze macabre di Jean-Frédéric Schnyder, nel video di Artur Zmijewski che filma un gruppo di non vedenti mentre dipingono il mondo a occhi chiusi. Opere d’arte contemporanea, reperti storici, oggetti trovati e vari tipi di manufatti “illustrano diverse modalità di visualizzare la conoscenza attraverso rappresentazioni di concetti astratti e manifestazioni di fenomeni soprannaturali”, spiega ancora Gioni.
Christiana Soulou dà forma agli esseri inventati da Jorge Luis Borges; la collezione di pietre dello scrittore francese Roger Caillois combina geologia e misticismo, mentre le lavagne disegnate dal pedagogo Rudolf Steiner tracciano diagrammi impazziti che inseguono il desiderio di comprendere l’intero universo; Walter Pichler progetta case per le sue sculture considerate creature viventi provenienti da un altro pianeta; Yuksel Arslan disegna le tavole enciclopediche di una civiltà immaginaria. Ma ci sono anche le cento sculture di creta di Fischli e Weiss che offrono un antidoto ironico agli eccessi delle visioni più totalizzanti. Insomma il progetto espositivo si disperde in mille rivoli, come è nella sua natura. Tutto vale e niente conta davvero. Non ci sono vincoli alle utopie che, per loro definizione, sono progetti destinati a mai realizzarsi. L’immagine che viene in mente è quella di certe botteghe di rigattieri dove vige la legge dell’accumulo. Il pensiero che regge questa esposizione, infatti, sfugge da tutte le parti rintanandosi nella vaghezza come la conoscenza che stava dietro le Wunderkammer, le camere delle meraviglie seicentesche prima dell’avvento dell’Illuminismo. Il mondo era allora un luogo sconosciuto, un territorio fra il magico e il religioso da cui giungevano notizie contraddittorie. Un mondo di superstizioni, crudeltà e pregiudizi da cui si trovava una via d’uscita attraverso l’immaginario più sfrenato, fino a confondere la vita con il sogno, secondo il celebre assunto di Calderòn de la Barca. Su questo terreno molle e vago la Chiesa ha costruito il potere dell’Inquisizione e del Barocco, il suo stile di propaganda fondato sulla meraviglia e l’estasi dei sensi.
Fra 500 anni, all’umanità che ci studierà giudicandoci dalle grandi parate d’arte come le Biennali, la nostra estetica vetrinistica dell’accumulo apparirà un ritorno del Barocco e dell’irrazionale, mille miglia lontano dalle possenti architetture del pensiero rinascimentale che respiravano serenamente l’universo e lo costruivano imponendogli la propria geometria. Priva di qualsiasi forza progettuale, la nostra Bellezza contemporanea è quella fragile del sentimento, degli esteti da laboratorio e quindi dell’intrattenimento. Le manca l’energia eroica dell’arte classica e del Rinascimento, quella visione sublime “non confinata al mistero, al dolore e all’oscurità”, come ha scritto Henri Focillon, ma che si manifesta nella calma e nella luce.