AI MAGAZINE Anno 3 Numero 33 novembre 2009
Intervista a Benedetto Di Francesco
Alla scoperta del lavoro di Benedetto Di Francesco, artista siciliano trapiantato nelle Marche, che con intelligente ironia sottolinea “il ritorno al concreto” focalizzato da Bonito Oliva.
Nell’ambito dell’arte contemporanea si è constatato recentemente un ritorno del figurativo - basti pensare all’ultima Biennale di Venezia - a discapito di una base puramente concettuale, caratteristica degli ultimi anni. È davvero un ritorno?
La tendenza nell’arte negli ultimi anni è stata l’uscita in toto dell’opera d’arte.
L’uso indiscriminato di ogni tipo di tecnologia, la sperimentazione esasperata di nuovi materiali, il volersi vincolare alla scoperta di qualcosa di nuovo, porta ancora una volta l’arte in una stato di profonda paralisi ed incertezza sul come andare avanti. Del resto già negli anni Ottanta con l’avvento della Transavanguardia nata proprio da uno stato di evidente crisi, Bonito Oliva focalizza subito l’esigenza di un ritorno a qualcosa di concreto, alla riconquista della pittura tradizionale che restituisca all’artista quella manualità che consente di ritrovare la dimensione creativa ed inventiva.Il fenomeno si ripropone ancora oggi, quando non si sa dove andare a pescare si tirano fuori sempre le vecchie storie, il valore della tradizione il recupero del manufatto, insomma la ricerca dei valori dimenticati, e cosi riaffiora la bella pittura figurativa, tante volte accantonata e lasciata lì, pronta ad entrare in scena quando si ha l’esigenza di comunicare in maniera chiara, immediata e sincera senza alcun sotterfugio.
L’arte figurativa ha tradizioni primordiali per poter sparire e poi riapparire, è come l’aria che respiriamo, si trova in ogni luogo indispensabile per la ricerca della propria identità.
Le Sue opere, ad un primo sguardo statiche, sono capaci di trasportare chi osserva in una sorta di dimensione onirica, attraverso un forte senso di appartenenza ed identificazione con la scena ritratta. Come conferisce tale potenza alle immagini?
Credo di poter dire che guardando le mie tele si possano cogliere due registri differenti: il primo puramente formale e dunque attrazione al grande formato, alle angolazioni prospettiche, al forte cromatismo e all’immediata lettura, dando vita a quella che è la “potenza descrittiva delle immagini”. Il secondo è attento ad una contemplazione più visionaria, dove entrano in gioco sentimenti onirici, i racconti ironici e silhouette grottesche, quest’ultime apparentemente statiche ma colme di vita e quindi meritevoli di essere oggetto di riflessione. Compresi questi due aspetti, si ha una ampia visione dell’opera, ma è solo allora che affiorano tutti i piccoli particolari, dal ricamo floreale di una carta da parati al decoro sconcertante di un tappeto persiano. Come in un romanzo mi diverte curare tutti i dettagli per regalare al fruitore una personale interpretazione e dunque la propria storia.
Costruzione di ambienti scenografici e arte: due aspetti della Sua vita ben scissi e distinti o connubio di influenze reciproche, strizzando l’occhio alla Bauhaus?
Artigiano e artista, due priorità della mia vita che nonostante siano affini viaggiano su binari diversi. Come artigiano, divido assieme al mio collega Alessandro Mazzoli anch’egli artista, un laboratorio di Arti Applicate, che cura la preliminare fase della
progettazione, fino al montaggio e consegna del prodotto finito. Il ventaglio delle applicazioni spazia dal design all’architettura d’interni, agli allestimenti in genere fino alla scenografia, alla fotografia, alla grafica ed all’installazione d’arte. Come artista, porto avanti il mio lavoro da ormai venti anni, gli ultimi quindici dedicati interamente alla pittura che divido per cicli. Collaboro con diverse gallerie e centri culturali, con poeti, scrittori, artisti, critici e riviste. Tornando alla domanda, ho sempre considerato dipingere come una sorta di terapia, esercizio per esternare dubbi ed emozioni, perplessità e fantasie, capace di liberarti da tutte quelle inquietudini quotidiane. Pensare di creare un connubio con altre realtà significherebbe perdere il proprio intimo rifugio.
I lavori della serie Interni Italiani esplorano con occhio ironico e profondo la famiglia italiana, con la sua passività, la sua abitudinarietà, la sua gelida indifferenza. Indagare nell’animo umano, partendo dal suo contesto: quanto è difficile questo percorso e fin dove può portare?
La famiglia italiana appartiene ad un ciclo di lavori realizzati nel 2006, composto da un totale di diciotto tele di vario formato. Per la prima volta decido di dare un unico titolo a tutto il ciclo, distinguendo le tele solo per atti, un tentativo di citazione al mondo del teatro e alla nostra bella commedia italiana. Dal primo all’ultimo atto le tele si succedono ad un continuo cambio scena, permettendo una lettura sequenziale di sentimenti, a tratti malinconici ma di lucida consapevolezza di un fausto domani. Con la famiglia italiana entrano in scena i gesti ironici, i riti domestici, i costumi sociali, insomma vicende normali di gente normale, che esprimono, tra mascheramenti e viaggi della mente, piccole e grandi solitudini; a questo si aggiunge il nostro bel tricolore, l’amata bandiera, che sventola giorno per giorno tra indifferenze e passioni, tra delusioni e illusioni, e che ricorda le nostre tradizioni, in particolare quelle da me raffigurate, ritualità domestiche e valori della famiglia. Priorità dell’artista è quella di indagare nell’anima delle cose, esplorarne il contenuto, per poter rendere infine l’opera condivisibile. ?