Titolo Anno 20 Numero 60 autunno 2009
“Spazio Frontale è lo spazio del vuoto. È l’immagine reale dell’infinito che per mezzo dell’azione si annulla e si compatta in un’unica superficie”
Analizzando l’opera di una coppia di artisti, solitamente, si riesce a cogliere quanto la ricerca dell’uno influenzi quella dell’altro, sottolineando come nell’iter creativo di ciascuno si sviluppino linee di ricerca e pensieri comuni che li portano ad affrontare le medesime questioni attraverso orientamenti, tecniche e materiali differenti, soprattutto se non operano direttamente insieme e con il medesimo medium.
Nel caso di Gianni Asdrubali e Pamela Ferri l’unione affettiva è nata da una corrispondenza intellettiva, proprio perché la ricerca spaziale che il pittore porta avanti da ormai trenta anni è la base su cui si innesta il lavoro dell’architetto.
La comunione d’intenti tra i due li ha condotti, nel 2003, a creare il gruppo Zamuva con l’obiettivo di sviluppare parallelamente la ricerca dello spazio frontale in arte e in architettura, facendo coesistere sensibilità estetica e criteri scientifici. Questo non significa per loro elaborare e progettare insieme forme e piani di lavoro ma, più semplicemente, seguire una stessa logica mentale e creativa, una teoria comune da applicare ognuno nel proprio campo d’azione, rimanendo autonomi. Punto nodale del fare creativo di Asdrubali è il Muro Magico del 1979: un ambiente completamente invaso dalla pittura e poi distrutto, che lo porta a prendere piena coscienza di come sia proprio lo spazio vuoto a stimolare l’azione, il segno che esalta la potenza del niente e dell’assenza. Attraverso tale esperienza, che potremmo definire “iniziatica”, elabora una spazialità frontale che l’artista tuscanese chiama “vuoto d’azione”.
Le sue opere nascono, dunque, da questo esclusivo modo di concepire lo spazio.
L’espressione delle sue configurazioni spaziali lo spinge, nel tempo, a formulare, per alcune delle serie create, delle denominazioni enigmatiche, prive di un senso apparente ma rivelatrici di una dimensione altra, fino a quel momento ignota.
Tramite il rifiuto e il superamento di un approccio prospettico, l’artista giunge ad una spazialità frontale e adimensionale, capace di comprimere le infinite tensioni spazio-temporali nel limite finito della superficie. Dallo scontro tra l’azione creatrice di Asdrubali e il vuoto originario e immacolato su cui interviene, emerge un ordito di segni che negli anni si sono manifestati ed evoluti in vari modi: nel ritmo di un fluire continuo nei Tromboloidi, per fasci di segmenti cromatici negli Azota e negli Zunta, in un concatenarsi convulso di segni neri, giustapposti l’uno all’altro, nei più recenti Stoidi, dove vanno ad assemblarsi in macroscopiche trame cosmografiche.
Se confrontati con i precedenti, si nota come in questi ultimi lavori il segno caotico talvolta si fa più compatto, trovando un ordine, quasi una struttura molecolare, mentre in altri casi si fa nervoso e scomposto, come in un’esplosione della struttura atomica. Il segno, inteso come strumento, come mezzo per raggiungere un fine, quello di una spazialità frontale, si contrae e si allarga, in una tensione precaria e perpetua tra un qualcosa che sta per deflagrare e un qualcosa che sta per implodere.
È nel transitorio equilibrio fra pieni e vuoti che sta l’antiforma di Asdrubali, generata dalla collisione di forze opposte e contrastanti. Un’antiforma che rappresenta il superamento della forma stessa, rompendola in un’immagine che non si espande e non si ritrae, ma rimane in statica tensione, racchiudendovi l’essenza del movimento.
Le opere di Asdrubali sono spazio capace di attivare e sostenere un qualsiasi altro spazio. E questo è ben dimostrato dalle tante operazioni virtuali in cui l’artista ha trasposto la sua idea di spazialità frontale nei luoghi del quotidiano, proiettando, attraverso molteplici fotomontaggi, i propri dipinti su palazzi e grattacieli, ma facendo rimanere tali ipotesi su di un piano puramente potenziale.
È il lavoro di Pamela Ferri che, partendo dalla pittura di Gianni Asdrubali, traduce la sua ricerca in architettura. La natura della spazialità da lui formulata viene così traslata ad un livello tecnico-progettuale dove pianta, sezione e prospetto convivono simultaneamente in un’unica superficie di spazio. Così il prototipo dello Zumoide, ossia il modello spaziale elaborato dall’architetto e che è alla base dei suoi studi, deriva direttamente dal Tromboloide.
L’elemento Zumoide nasce dall’analisi e dalla scansione delle linee di tensione che attraversano lo spazio, studiate in superficie e, solo in un secondo momento, concretate tridimensionalmente. Ne scaturiscono forme chiuse, arrotolate su se stesse, oggetti non modulari ma assemblabili, che uniti tra loro creano uno spazio complesso. Lo Zumoide dà corpo al vuoto rendendolo nitido, reale e frontale, è un’unità, autosufficiente e autoportante, che si articola in infinite soluzioni, diversificate da una variazione degli equilibri interni.
Lo Zumoide è un organismo in cui l’interno e l’esterno si sostengono reciprocamente, una spazialità che può mutare in qualsiasi cosa. Può diventare un Pontile Zumoide composto di una duplice superficie tridimensionale: l’una galleggiante, l’altra di copertura. Può adattarsi all’interno di un locale notturno o trasformarsi in una Struttura sia permanente che di emergenza nella quale i piani si trasformano in pannelli fotovoltaici, dando alla costruzione un’autosufficienza anche energetica.
La traduzione pratica più coerente e sistematica dello Zumoide, però, sino ad ora, l’architetto l’ha compiuta nell’edilizia residenziale.
Nel 2008 la Ferri, in collaborazione con l’architetto Marco Vailati, mette in pratica la sua idea di spazialità frontale nella ristrutturazione di un appartamento a Roma, la Casa Artale. Qui ridefinisce la pianta della casa e di ogni singola stanza seguendo le linee di tensione che attraversano l’intera struttura, esaltandole per mezzo di tagli di luce e sviluppando una scansione di piani che, ad un tempo, emergono e si sottraggono. In questa articolazione spaziale inedita ciascun ambiente risulta essere una maglia di un tessuto connettivo, non uno spazio chiuso in sé ma in relazione con gli altri.
Il dialogo intenso e il confronto continuo tra l’artista e l’architetto ha prodotto degli effetti evidenti sul lavoro di entrambi. Così gli spazi frontali di Gianni Asdrubali lasciano intendere come contengano, in nuce, un embrione di progettualità architettonica, mentre negli studi e nei disegni di Pamela Ferri indubbiamente emerge una vivace qualità pittorica. La condivisione di una medesima coscienza sostanziale, incentrata sul vuoto come fonte originaria di tensioni, di un’assenza che contiene l’essenza dello spazio e del movimento latente, spinge i due a portare avanti, contemporaneamente ma autonomamente, una ricerca comune verso soluzioni spaziali innovative e sempre variate.