Juliet Anno 31 Numero 152 aprile - maggio 2011
Spot sulla scena londinese (n. 4)
Incontriamo Alberto Tadiello (Montecchio Maggiore, Vicenza, 1983. Vive a Venezia) che, a seguito della vittoria del Premio Furla 2009 con l’opera Shift, ha partecipato, nel 2010, ad un periodo di residenza presso Gasworks di Londra (vedi ENGLISH BREAKFAST [03]). Importanti riconoscimenti, italiani ed esteri, lo individuano come una delle proposte più interessanti del panorama artistico attuale.
Gasworks non è stata la prima residenza cui hai partecipato. Che differenze sostanziali hai riscontrato tra questa e altre esperienze del genere, e come ha inciso la permanenza a Londra – se ha inciso – sul tuo modo di lavorare e/o relazionarti al contesto lavorativo?
Ogni programma di residenza ha un suo carattere, una sua personalità o una qualità particolare su cui riesce a fare leva. I mesi che ho trascorso alla Dena Foundation for Contemporary Art di Parigi, ad esempio, sono stati densissimi di appuntamenti e visiting studio, ma non avevo un minimo spazio dove poter lavorare. La residenza a Villa Arson a Nizza, invece, che sto attualmente seguendo, è una situazione quasi complementare a quella parigina: ho grandi disponibilità pratiche e spazi molto ampi ma scarse possibilità di contatti e relazioni. Il periodo trascorso a Londra, a Gasworks, è stata un’altra esperienza ancora, dove ho potuto approfittare di una buona autonomia e libertà nella gestione degli spazi e dei tempi. Londra è una città estremamente densa, quasi claustrofobica, potente, ma non ho mai percepito questo trimestre come un momento di forte cambiamento o di particolare incisività.
Il tuo lavoro indaga costantemente i limiti e le potenzialità del rapporto tra forze diverse, con un approccio di carattere quasi “scientifico”. La fase progettuale, di conseguenza, mi sembra essere molto importante. Nel passaggio dall’idea alla realizzazione, necessiti mai di collaboratori specializzati, esterni al mondo dell’arte?
La fase progettuale di un lavoro si delinea quasi sempre in una serie di appunti, schizzi, foto, tracce audio, immagini raccolte da internet, suggestioni che non sento di dover sempre organizzare o ordinare. La ricerca intorno a un lavoro e la relativa dimensione progettuale spesso si costruiscono anche durante la fase concreta di realizzazione. Sono i limiti fisici delle cose a determinare dei funzionamenti “concettuali” o ad imporre delle decisioni che altrimenti non arriverei mai a prendere. Trovo che questo aspetto sia molto importante perché è il lavoro stesso a dettare delle precise priorità o ad avere delle necessità e delle urgenze. In alcuni progetti, le collaborazioni con fonici o ingegneri elettronici o altri specializzati sono state fondamentali, ma non ho mai avuto un atteggiamento puramente registico, di delega di funzioni e incombenze. Per la maggior parte dei casi si trattava di dover risolvere alcune problematiche di cui non avevo competenze o conoscenze.
Come ti sembra che sia cambiato il tuo lavoro negli anni?
Mi viene subito alla mente la relazione di una via di roccia, dove attraverso uno schizzo si tenta di sintetizzare la parete di una montagna indicando lungo il tracciato della via i punti di sosta, il numero dei tiri di corda, i gradi di difficoltà, le diverse conformità rocciose… Quando penso a una ricerca artistica immagino il primo salitore di questa via. Ha avuto un’intuizione fulminea guardando un immenso muro di roccia. Ha individuato una linea e ha trovato il coraggio per percorrerla, l’ha fatta affiorare dalla roccia, le ha dato un nome e una tridimensionalità. Non ha compromesso nulla di quella monumentale bellezza, né ha prodotto qualcosa di immediatamente tangibile o remunerabile. Non credo sia il lavoro a cambiare, ma di volta in volta variano le posizioni, gli andamenti, le tecniche, le suggestioni e i pensieri necessari per poter percorrere quella linea che si è intravista solo dal basso.
Quali sono i prossimi progetti a cui stai lavorando?
Nell’immediatezza urgono delle collettive a Firenze, a Milano e a Madrid. Sto pensando di provare qualche residenza di un paio d’anni all’estero, in modo da potermi appoggiare in un paese diverso dall’Italia per un buon periodo, senza sentirmi solamente di passaggio. Più in generale sento il bisogno di uno studio, di uno spazio unicamente mio dove poter lavorare, ma soprattutto dove abbandonare i lavori affinché il tempo li possa forzare e testare.