AI MAGAZINE Anno 5 Numero 50 aprile 2011
Crollo e rinascita di un ideologia a ridosso della “zona morta”.
“In questa piccola provincia radioattiva non ci sono odori, nelle cittadine deserte i palazzi rivelano i segni del tempo. Qui i villaggi sovietici sono ancora in piedi e qua e là spuntano, sbiaditi i vecchi simboli del regime: la stella rossa e la falce e il martello. Lo strillare dei corvi è assordante, i rami di betulla sono abitati esclusivamente da questi neri uccelli; mentre le dacie in legno, una volta ricche di colori adesso sbiaditi, sembrano voler raccontare della pazzia dell’uomo che ha voluto farsi Dio.”
Proporre una nuova chiave di lettura di questo intenso lavoro fotografico di Luigi Ottani, tentando anche solo per un momento di svincolarsi dalla morsa di un surriscaldamento del dibattito nucleare, pare assai complesso, anche in considerazione di fatti che riportano con grande attualità il tema trattato.
Fukushima e le immagini del disastro giapponese, così come la ricorrenza di questo aprile 2011, venticinquesimo anniversario del disastro nucleare di Chernobyl, ci impongono una lacerata riflessione sulle opportunità offerte e sui rischi connessi alla onnivoricità del fabbisogno di approvigionamento energetico e della conseguente tematica dei cambiamenti climatici che è una grande questione.
Cosa resta, a più di vent’anni di distanza, del più grave disastro nucleare ad oggi mai registrato?
La notte del 26 aprile 1986, all’una e ventitré minuti, aveva inizio quella tragedia che si sarebbe protratta per anni, abbattendosi fino al presente sulle popolazioni inermi e sconvolgendo l’Europa del benessere.
Lo scoppio del reattore nell’Ucraina dell’Ex Unione Sovietica ha aperto uno squarcio su un mondo abbandonato e dimenticato prima e dopo la strage.
Niet Problema! Chernobyl 1986-2006, è una mostra fotografica dura; senza sconti, ora esposta fino al 26 aprile prossimo, presso il Castello di Formigine a Modena.
Queste fotografie ci offrono spunti di riflessione anche drammatica su quegli accadimenti, di un comune e sempre vivo recente passato.
Attraverso una selezionata sequenza di immagini, tutto è proiettato al passato, alla perdità della identità nazionale e alla nostalgia della epopea comunista.
Segnatamente emerge, nella logica di quel principio già affermato da Tiziano Terzani, che fotografare è svelare quello che la mente ha già compreso.
Queste fotografie splendide, senza dubbio legate ad una intensa necessità narrativa, intimamente legata alla natura dell’operare fotografico di Ottani, sono anche istantanee del crollo e dello sfaldarsi prima di una ideologia rassicurante e poi della stessa condizione di rassicurazione.
C’è un altro tema che si cela dietro la tragedia, vi è infatti una seconda importante e meno apparente chiave di lettura nel senso di spaesamento e di sversamento della identità affermato dai volti e nei luoghi restituiti dalla visione fotografica di Luigi Ottani.
Tutto sembra convergere sul problema posto da una affermazione, frutto di un senso profondo e radicato, quanto radicale, di appartenenza; da quel rassicurante perentorio <
Queste immagini, accompagnate dalle testimonianze documentate e raccolte con il giornalista Pierluigi Senatore nel 2006 e contenute nel libro, edito da Artestampa di Modena, che a valso ad Ottani il Premio Marco Bastianelli, vanno alla scoperta dei luoghi, venti anni dopo, teatro della catastrofe nucleare di Chernobyl.
“Il grande sogno della libertà che doveva già arrivare come effetto a catena, per usare un termine tecnicamente aderente ai fatti, dalla caduta del muro di Berlino alla indipendenza da Mosca, hanno in realtà svelato luoghi ancora senza futuro.
I protagonisti sono ancora loro: le statue di Lenin e i modelli di carri armati a grandezza naturale che fanno bella mostra di sè nei parchi e nelle piazze di tutte le città, evocando i “gloriosi” momenti della lotta partigiana contro l’invasore nazista.”
Città dove il grigio sembra dominare come la cenere, dalla architettura prefabbricata di una ordinata urbanizzazione da periferia diffusa a quella della contemporaneità virtuale, in una globalizzazione da società liquida che di liquido ha però solo la consistenza di un liquame a cui solo la neve può restituire una parvenza momentanea di candore.
Ancora oggi mi chiedo come facciano a vivere lì, ma non ho mai raggiunto che una soluzione in mia piena autonomia, che sono obbligati; ad un atto di costrizione semplice, ad abitarci.
“Viktor, Ivan e Leonid. Età indefinibile, occhio languido che testimonia le normali frequentazioni con la vodka e una sigaretta, arrotolata con la carta da giornale, sempre accesa al lato della bocca. Anche loro hanno avuto la possibilità di andarsene, ma sono rimasti perchè << qui è meglio di tanti altri posti; le uniche due alternative che ci offrirono erano entrambe in zone radioattive, quindi c’era ben poco da scegliere e poi questa è la nostra terra e la Patria ci ha chiesto di restare.>> .
Uno strano senso del dovere nei confronti di una Patria che sembra averli dimenticati, relegati nell’oblio di una storia che non interessa più a nessuno.”