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Lettera internazionale Anno 28 Numero 112 luglio 2012



Disobbedisco e ti porto al mare

Michela Mastrodonato



Rivista trimestrale europea


SOMMARIO N. 112

Donne in movimento

In copertina: Mariapia Borgnini, Pattinatrice (da Jiři Kolář), 2012, part.

Fiore violato, Rita El Khayat

Nuove riflessioni sul dominio maschile, Pierre Bourdieu

Donna: nomade e plurale, Rosi Braidotti

Ricordi di una donna, memorie degli italiani, conversazione tra Agnese Moro e Biancamaria Bruno

Una storia tra tante, Manuela Dviri

Disobbedisco e ti porto al mare, Michela Mastrodonato

Donna italiana: digitale o analogica?, Massimiliano Mazzarella, intervista di Biancamaria Bruno

Il viaggio delle donne è appena iniziato..., Marina Calloni

Attraversare le frontiere, Anna Zoppellari

Scivoliamo scivoliamo con il pianeta, Vénus Khoury-Ghata

Con la pioggia, anche la follia, Yanick Lahens

È così che le donne crescono..., Leila Marouane

Le donne del Mediterraneo. Tra primavere arabe e crisi, Rita El Khayat

Immaginario post-sovietico: una prospettiva di genere, Madina V. Tlostanova

La questione della donna nell’Argentina, Gina Lombroso

Un ponte fra tanti mondi, Gloria Anzaldúa

Per una frontiera invisibile, AnaLouise Keating

Caccia agli angeli, Spojmai Zariab

La vecchietta che cercava le stelle, Anthony Phelps


Gli artisti di questo numero:
Mariapia Borgnini, Christiane Löhr, Gea Casolaro, a cura di Aldo Iori

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MAriapia Borgnini, Sfere. L'immagine del mondo è nella mia mente, 2007, part

Christiane Loehr, Senza titolo, 2009, part.

Gea Casolaro, South #04, 2008-2010

Il n. 112 di Lettera Internazionale è uscito 15 giorni prima che venisse a mancare il suo fondatore Federico Coen. A lui, Biancamaria Bruno e la redazione dedicano idealmente questo numero e i futuri a testimonianza del suo insegnamento

Alzati, oggi andiamo al mare. Perché? Perché l’odore del mare rianima i respiri, rincuora gli animi stanchi e rinvigorisce ovunque la vita. Ti fidi di me?
Forse non ha pronunciato esattamente queste parole. Ma le ha certo pensate e sentite dentro, Ilana Hammerman, giornalista israeliana del quotidiano Hareetz, nel maggio del 2010 quando propose a tre palestinesi, giovani come lei e donne come lei, una piccola gita: un viaggio di pochi chilometri ma immenso perché proibito, fino al mare.
D’altronde, in Israele è difficile ignorare l’odore del mare. Si infila un po’ dappertutto. S’inaria e risale i declivi delle colline fino ad altitudini insolite. Ancora carico di umidità salmastra nella piana di Tel Aviv, si libera e percorre in salita i fianchi ondulati delle montagne della Giudea e della Samaria. Addirittura, in certe mattine dorate, gonfiato dai venti occidentali, un aroma speziato dal profumo resinoso di pini e rosmarini con qualche zaffata arriva a lambire perfino Gerusalemme. L’altera, l’inafferrabile Gerusalemme. L’intera Gerusalemme.
Perché il soffio del mare non teme alcun check-point, non ha bisogno di permessi, e spira un po’ dove gli pare, come lo Spirito Santo, direbbero i cristiani. E infonde una stramba voglia di cantare, più o meno come il soffio divino che, direbbero gli ebrei, ci induce al canto come più alta forma di espressione e di parola.
Così, un respiro prima è l’Israele degli israeliani, un respiro dopo è la Cisgiordania dei palestinesi. Niente di più naturale, di più irriproducibile. Una promessa di aperture e di freschezza non mantenuta e anzi proibita alla popolazione palestinese che, nella stragrande maggioranza dei casi, non ha mai visto né accarezzato con i piedi insabbiati le onde del mare sulla battigia.

Eppure, dal giorno in cui Ilana Hammerman ha messo per iscritto il suo viaggio al mare (“Se c’è un paradiso”, in Hareetz, 18 maggio 2010) con Lin, Aya e Yasmin – ma sono nomi di comodo a protezione delle identità – è stato come gettare in acqua un sasso che genera onde concentriche di cui non è così ovvio indovinare il termine e gli effetti. Perché è vero che le idee camminano da sole se hanno buone gambe, cioè se sono buone idee.
Così Ilana è stata l’apripista, la tour operator dell’illegalità, l’ideatrice del reato che ha poi pagato con un procedimento penale aperto d’ufficio contro di lei per aver infranto la “legge sull’ingresso” nello Stato d’Israele. Dopo di lei ha fatto altrettanto Rachel Shabi, giornalista del quotidiano britannico The Guardian. Finché l’idea non ha ispirato un gruppo di donne israeliane di età e classe sociale differenti, che hanno messo coraggio nelle ruote, audacia nelle marce delle proprie automobili, e hanno deciso di portare al mare donne con storia, lingua e religione diverse dalla propria.
L’unico requisito richiesto per salire in vettura era infatti la voglia di respirare liberamente oltre gli steccati e i permessi richiesti per varcare la linea verde che lacera questa terra. Un unico viaggio, un’intera giornata, decine di posti di blocco, di check-point al varco di muri o di recinti spinati in cui dissimulare, fingere calma routinaria, fino all’istante propizio della rimessa in moto, con i soldati di ambo i fronti alle spalle.
Da una parte, donne palestinesi (con i loro bambini, beninteso) prelevate all’alba sulle strade appena fuori dai loro villaggi cisgiordani, donne che il mare non l’hanno mai neanche sognato, perché si sogna ciò che in qualche modo o in qualche tempo si è conosciuto, nascoste sotto mentite vesti occidentali; accompagnate da altre donne, ma israeliane che, ingaggiando questa sfida, hanno formalizzato la consapevolezza di infrangere una legge dandosi un nome preciso (che è sempre il segnale di qualcosa che per noi esiste davvero).
Hanno deciso di chiamarsi le disobbedienti, nel caso in cui qualcuno intendesse equivocare o leggere nei loro viaggi al mare scampagnate innocenti. Non solo.
Dopo aver pubblicato la notizia su un giornale, per incoraggiare e diffondere l’iniziativa, sono diventate centinaia le donne che su ambo i fronti organizzano ormai in modo stabile sottoscrizioni per sfidare la legge e il cosiddetto “sistema dei permessi”. Con un proposito unico, banale: far capire a un numero sempre maggiore di israeliani che non c’è nulla da temere e che è importante respingere l’ideologia che mantiene le persone separate e nemiche. Proposito comunque illegale perché lesivo di una legge inflessibile, la legge della separazione rigorosa tra il popolo israeliano e quello dei Territori Palestinesi. Legge cogente su ambo i fronti.

Prima del 1991, i palestinesi di Cisgiordania e di Gaza, striscia costiera oggi blindata al mondo, potevano muoversi liberamente e le limitazioni di movimento all’interno di Israele erano l’eccezione. Poi Israele ha inaugurato il cosiddetto “sistema dei permessi”, secondo il quale i palestinesi non possono viaggiare o spostarsi senza un permesso emesso dalle autorità amministrative israeliane, e autorizzato con decreto militare ad essere efficace in Cisgiordania. Un sistema che cominciò ad essere seriamente applicato solo verso la metà degli anni Novanta, in seguito a un’ondata di attacchi terroristici all’interno di Israele.
Da allora, il crescendo delle limitazioni è stato una spirale senza sosta, con restrizioni sempre più serrate, fino alla costruzione di barriere fisiche: il famigerato muro e le non altrettanto famose gabbie di scorrimento ai tornelli del trafficatissimo check-point di Qalandiya, non lontano da Gerusalemme. Con una strategia dell’esclusione sempre più efficace.
I “passaggi” garantiti ai palestinesi dalla Cisgiordania includono oggi una quota di lavoratori con più di 35 anni e sposati (circa 24 mila persone); spostamenti per motivi sanitari; studenti giustificati da motivi speciali, persone anziane per motivi religiosi, come pregare o rendere visita alla famiglia durante le festività religiose, e pochissimi permessi per commercianti o vip. Un totale che raggiunge a stento l’uno per cento della popolazione palestinese.
Una rete le cui maglie si rinserrano ogni giorno di più: e spesso i criteri del passaggio e le regole del gioco variano in base all’umore dei controllori dei vari check-point, o in base al generale clima politico del momento. In sostanza, secondo come “gira il vento”.
È questo il contesto diciamo normativo in cui è nata l’idea del “viaggio al mare” condiviso da donne israeliane alla guida di automobili piene di donne palestinesi in compagnia dei loro bambini.
Ma, all’origine di tanto sommovimento, Ilana non aveva intenzione di delinquere. Voleva solo che, per una volta, fosse mantenuta quella promessa di mare trasportata dal vento in Terra di Giudea e nei villaggi natìi delle sue tre compagne di viaggio, nello spazio che corre tra un’alba e la notte profonda che la segue. Niente di più. Ma neanche niente di meno.
Il viaggio al mare di Ilana è stato il primo, il padre di tutti i viaggi. Raccontato in punta di penna, con semplicità e poesia: il palpitante passaggio ai check-point senza i veli e o altri segni di un abbigliamento tipicamente arabo, la visita al Museo della Terra di Tel Aviv, il gigantesco centro commerciale Dizengoff gremito di negozi scintillanti, fontane e scale mobili. Un gelato all’antico quartiere ebraico di Neve Tzedek fuori le mura di Jaffa; l’antico porto, con le sue barche screpolate che sonnecchiano cullandosi sul filo dell’acqua. Il famoso “mercato delle pulci” e infine, desideratissima, la spiaggia: la spiaggia tiepida, sabbiosa, dorata.

La Terra Santa è una terra nutrita dalla produzione ipertrofica della cronaca politico-militare, cronaca che racconta di vite che non valgono niente, quotidianamente spezzate da un conflitto i cui fronti somigliano spaventosamente ai lembi di una ferita infetta e maleodorante con cui, empiamente, si è imparato a convivere da millenni.
Ed ecco, invece, un articolo apparentemente privo di notizie e in realtà gravido della più importante di tutte le notizie: l’annuncio che qualcosa si muove sotto la coltre asfittica della logica di guerra, che qualcosa si muove sotto la cenere di questo incendio apparentemente inestinguibile. Qualcosa che si muove mosso dalle donne di ambo i fronti: sguazzando con i piedi nella schiuma della risacca, giocando con la sabbia tra le dita, guardando l’orizzonte, sorridendo al tramonto.
Momento di profonda e purissima libertà, in una regione del mondo in cui questa parola ha un significato difficile da spiegare a chi vive altrove. In cui una volta di più alcune donne, sebbene appartenenti a due sistemi politici avversi ma speculari nella logica dello scontro, hanno visto una via diversa. Non una diversa opinione, non un diverso partito, ma una costellazione di idee radicalmente “altra” rispetto al linguaggio della guerra, dello scontro culturale e, in fondo, della pura e semplice conquista.
Donne ebree, e non solo israeliane, che in modo eversivo e pacifico traducono in realtà quanto sosteneva Louis Massignon, insuperato studioso dell’islam del XX secolo, secondo il quale «per comprendere l’altro non bisogna conquistarlo ma farsi suo ospite. Perché la verità si trova nell’ospitalità. Perché i sistemi si oppongono, ma le persone si incontrano».
Sì, si incontrano e, aggiungo io, sfondano muri, forzano gabbie, schiudono orizzonti vasti e odorosi, gettano ponti prodigiosamente sospesi sull’abisso, spalancano porte e finestre sul mare. E spesso grazie alle donne.
Non perché le donne siano più brave o più intelligenti, ma perché tutte le donne, per quanto invivibile e scellerato possa essere il mondo in cui si trovano a vivere, custodiscono il bene più prezioso di cui l’umanità possa disporre: la speranza. E nel momento più inopportuno – ma necessario e drammaticamente propizio – restituiscono questo bene al mondo, magari in una giornata di sole, in riva del mare.
A un pensiero simile, tornano alla mente alcuni dei versi dedicati da Pier Paolo Pasolini alla donna che ai suoi occhi raccoglieva il carico di umanità di ogni donna, sua madre: «In ogni luogo dove un giorno risero, e di nuovo ridono, impuri, i vivi, tu darai la purezza, l’unico giudizio che ci avanza, ed è tremendo, e dolce: ché non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza».(1)


Note
1 Appendice alla “Religione”: una luce, in La religione del mio tempo, in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, Tomo I, Mondadori, 2003, p. 991.



Michela Mastrodonato è giornalista professionista, dottore di ricerca a La Sorbonne di Parigi, vive a Gerusalemme e scrive per Il Messaggero. Dopo aver iniziato all’Agenzia di Stampa Reuters, passa alla tv realizzando reportage per Mediaset (Moby Dick, Moby’s) e per la Rai (Pianeta Economia). Ha collaborato a lungo con La Stampa. Tra i suoi saggi: Quando la telecamera di guerra incontra un bambino, Eri-Rai, 2005.