AI MAGAZINE Anno 7 Numero 60 inverno 2013
Nella primavera del 1891 Paul Gauguin s’imbarcò su una nave elegante e confortevole, chiamata Océanien, diretta verso quelle isole dell’Oceano Pacifico, lontane colonie della Francia.
Egli scrisse: “Parto per starmene tranquillo, libero dalla civiltà. Voglio fare dell’arte semplice, molto semplice; per questo ho bisogno di ritrovare le mie forze a contatto con la natura ancora vergine, di vedere solo selvaggi e vivere la loro vita, senz’altra preoccupazione che tradurre con la semplicità di un bambino le fantasie della mente con gli unici mezzi veri ed efficaci: quelli dell’arte primitiva”.
Qualche anno prima aveva scritto: “L’Occidente è marcio […] Chi è come Anteo può trovare nuovi punti di forza che viaggiano verso luoghi incontaminati. Così per tornare uno o due anni dopo, più solido”.
Giunto a Papeete-Tahiti, Gauguin presto si rese conto che il paradiso che aveva vagheggiato era già stato ucciso dai molti anni di colonizzazione europea, tuttavia ancora persisteva, in certi villaggi sperduti di quelle “indie”, una parte importante della cultura autoctona che stava cercando.
Iniziato a dipingere, in un primo momento Gauguin cercò di trovare una via di mezzo tra la nostra cultura tradizionale cristiano-cattolica e quella polinesiana, ma i risultati non lo resero soddisfatto, allora, perspicace e cocciuto com’era, sempre più si calò entro lo spirito etnico di quelle geografie, indagò a livello antropologico, studiò i pigmenti usati dagli indigeni per i tatuaggi che decoravano i loro corpi o adoperati per abbellire le loro imbarcazioni e i loro totem, fino a raggiungere una tavolozza calda, concreta ma spirituale assieme, in cui il colore arancio-ruggine trovò una sua collocazione ben precisa, sia per indicare quelle spiagge selvagge che molto lo affascinavano, sia per dare profilo a certi animali, sia per tratteggiare macchie di fiori o piante, sia per definire certi panneggi o lembi di stoffa.
Infine, sempre più avulso dalle credenze arcaiche di quei popoli, il “colonizzatore cattolico” si trasformò in un feroce detrattore della Chiesa di Roma, inoltrandosi, quasi rapito, nelle leggende e nei miti polinesiani. Diede così vita alla famosa tela Il cavallo bianco, poi all’opera Matamua, ora parte della collezione Thyssen, che raffigura una valle leggendaria, posta al centro dell'isola di Tahiti, in cui i suoi abitanti vivevano ancora nel passato, oppure alle numerose statuette di dei e idoli, che realizzò successivamente. Negli ultimi anni della sua vita, trascorsi nelle isole Marchesi, Gauguin ha scritto molto sulla tradizione della scultura polinesiana: “Quest’arte è ormai scomparsa a causa dei missionari che hanno ritenuto che la scultura espressa da questa gente fosse feticismo e nulla più, cioè un’offesa a Dio”. E aveva ragione. In realtà, alla fine del XIX secolo, quasi tutte le sculture in legno forgiate dagli antichi polinesiani furono distrutte o bruciate nelle missioni cristiane. Perciò Gauguin diede vita a un lavoro epico quando tentò di restituire agli indigeni la loro mitologia distrutta, quindi la loro identità e, di conseguenza, la loro dignità. Purtroppo però quasi tutte le sculture create in quegli anni dall’artista francese vennero realizzate con un legno di bassa qualità, infatti sono solo due le statuette rimaste a cui egli diede forma, oggi conservate al Museo d'Orsay di Parigi.
Nell’aprile del 1892 l’artista scriveva: “Voglio finire la mia vita qui, nella solitudine della mia baracca. Oh sì, qui io sono un criminale, ma ... cosa c'è di sbagliato in questo? Anche Michelangelo era un criminale”.
Ma qual è la “criminalità” a cui Gauguin si riferiva? Quella del suo progressivo distacco da ogni “vestigia” della società e della cultura borghese europea, scegliendo la libertà da ogni convenzione e da ogni remora di ordine morale (e non gli fu difficile, considerata l’indole ribelle e trasgressiva che sempre lo visse).
Ed eccolo misurarsi col suo capolavoro, con la tela di dimensioni più grandi che egli mai dipinse:
L’opera segue un ordine cronologico inverso, cominciando dalla sinistra, si vede la figura straziante di un vecchio in posizione fetale, con le orecchie coperte dalle mani, mentre, all’estrema destra, un neonato, simbolo della vita e dell'innocenza, è circondato da tre giovani donne tahitiane. Al centro del quadro campeggia la figura di un indigeno che coglie un frutto, allegoria della tentazione al peccare che attanaglia sempre l’uomo.
Strutturare la tela in un ordine cronologico inverso sta a indicare come il primitivo, l’ingenuo, il darsi felicemente all’esistere sia l’unico modo per rigenerare oltre che il divenire di un “Occidente malato” anche l’arte che l’Europa stava allora producendo.
Nel quadro il colore arancio-ruggine appare qua e là, a chiazze, spingendosi, a momenti, verso un terra di Siena oppure a un verde cinabro. Perché, nel Gauguin dell’ultimo periodo, ritorna sempre più spesso l’arancio-ruggine?
L’artista francese conosceva benissimo, come risulta dai suoi scritti, il significato simbolico e alchemico espresso dai vari colori. L’arancione, più o meno ossidato, indica un’armonia interiore ritrovata, la fiducia in se stessi, il credere che possa concretizzarsi un possibile mondo perfetto. Poi custodisce in sé il principio della comprensione totale, della consapevolezza, la saggezza, l’equilibrio, il progressivo disinteresse per quello che di futile e materiale un certo sistema e una certa società ci propongono. Quindi diviene colore che allontana la depressione, aumentando la capacità di reagire alle avversità in modo repentino ed efficace. Ed è simbolo, per eccellenza, di fertilità e di energia positiva.
Gauguin, perciò, spinse su quei tasti sia in accezione catartica sia palingenetica, indicandoci una via, un ritorno alla natura nella forma di “matrimonio” con la stessa; ripropose, paganamente, un rapporto femminile con l’ambiente che richiamasse l’idea del ventre materno, della matrice comune, contro lo strapotere “fallico” dell’industrializzazione, che egli colse quale tirannico nemico avanzante.
Inoltre capì che “il peccato originale” stava nella pretesa di poter agire sul Giardino dell’Eden, trasformandolo. Quella logica che ha portato, nel XX secolo, alla continua distruzione della natura e all’idea che il mondo sia solo una valle di lacrime da attraversare o da devastare.
Perciò Gauguin e i suoi arancioni si posero contro quell’idea agostiniana secondo cui mundus est immundus, cioè “il mondo è immondo” al punto che si può violentare come meglio ci aggrada, senza considerare il come la penseranno coloro che ci seguiranno.
E su ciò necessita continuare a riflettere, per poi agire, in base agli strumenti culturali e creativi che si possiedono, così come il grande pittore francese fece, in accezione illuminata, passionale e titanica, prima di noi.