AI MAGAZINE Anno 7 Numero 61 primavera 2013
“Da sempre sono stato un osservatore. Ovunque. Dalla finestra di casa, dall’auto, dal treno. Ciò che vedevo l’ho sempre percepito come inquadrato e mutevole nelle forme, nelle luci e nei colori”.
Così inizia a raccontarsi Cristiano Conte, fotografo bellunese, nato nel 1969, che ha fatto della sua passione una professione.
L’incontro con la fotografia non è un incontro caratterizzato da una infatuazione romantica ma spesso è il risultato di un mix tra diversi elementi. Per lei la fotografia può essere caratterizzata da un assembramento di competenze?
Mi sono accorto della fotografia quando ormai era cosa manifesta in me.
Ho iniziato a “occuparmi” di fotografia dopo trent’anni di relazione con le mie fedeli fotocamere, e per tutta l’adolescenza è stato un percorso assolutamente da autodidatta senza aver mai preso spunto da alcun fotografo.
Piuttosto mi sono fatto influenzare da pittori moderni e contemporanei come Emilio Scanavino per la tipologia di costruzione dell’immagine, spesso coraggiosa nelle asimmetrie e nelle proporzioni vuoto / pieno. E poi il Gruppo N dell’arte cinetica programmata padovana che mi ha influenzato in quegli scatti fotografici di estremo rigore geometrico, per finire poi alla realtà completamente sfocata che ciclicamente caratterizza i miei lavori sebbene per brevi periodi… Atmosfere pure generate comunque da qualcosa di realmente fotografato, ma non riconoscibile, impalpabile. Forse qui Rothko ha avuto la sua bella influenza su di me.
Fotografare uno spazio. Che tipo di esperienza è?
Amando la matematica, i numeri in generale, le armonie geometriche potrei dire che il mio ragionamento è assolutamente cartesiano.
Nel fotografare gli spazi artificialmente costruiti dell’architettura e dei paesaggi urbani pongo l’attenzione prioritaria all’equilibrio degli elementi geometrici intesi come forme decontestualizzate dalla scena.
Parto da un suo lavoro che una persona comune potrebbe definire “forte”. Mi riferisco a Cerebros. Costruire un concept e fotografare uno spazio di un edificio sono due modalità di pensare l’atto fotografico diametralmente opposto, oppure si possono trovare alcuni punti di contatto?
Se si tratta di lavori commissionati, in effetti, gli approcci possono differire parecchio anche perché devo lavorare con degli “ingredienti” imposti dal cliente, che spesso sono assai diversi se si tratta di comunicazione concettuale piuttosto che di documentazione.
Nei lavori di ricerca personale invece anche l’impostazione di un progetto fotografico architettonico viene pensato e costruito con le stesse modalità con cui realizzo i lavori astratti o concettuali.
Nella libertà dei lavori di ricerca manifesto al massimo la mia maniacale ossessione per gli aspetti geometrici e formali dell’immagine. Cerco di ottenere pulizia e rigore assoluti, percependo anche l’eventuale presenza umana come un elemento anonimo, dotato solo di forma e di volume nello spazio.
Oltre alla fotografia professionale c’è altro?
Prima di tutto c’è la fotografia di ricerca, quella mia personale, che il più delle volte realizzo, osservo ed elimino io stesso senza sottoporla ad alcuno.
E poi la fotografia è anche la materia che insegno e questo mi dà grandissime soddisfazioni.
Inizialmente tenevo corsi privati per gruppi di giovani studenti che volevano approfondire per conto proprio, al di fuori degli studi accademici.
Da qualche anno invece insegno fotografia nei corsi triennali di Interior e di Media Design presso l’Istituto Europeo di Design, nella sede di Venezia.
Come è approdato a questo tipo di realtà? Era una sua aspirazione o è accaduto un po’ per caso?
Un po’ di fortuna ci vuole sempre, ma il carburante per muoverti e farti approdare a qualche realtà consona alle tue aspettative è assolutamente l’amore e l’incondizionato desiderio dentro di te verso qualcosa di ben preciso e definito.
La vera passione deve essere così dentro la persona da esserne una ragione di vita.
E se è vera passione, questa saprà guidare lungo la giusta direzione.
Grazie all’insegnamento, oltre a dare, riceve anche lei qualcosa?
Insegnare per me è un dare e ricevere piuttosto bilanciato.
La valutazione dell’apprendimento e della capacità degli studenti è anche lo stimolo migliore per indurmi a osservare e valutare i miei lavori passati, anche recenti, spesso rimettendone in discussione la buona riuscita di cui ero convinto.
Credo che rimettersi sempre in discussione e criticare fortemente i propri lavori, evidenziandone i punti deboli, sia il miglior modo per dimostrare a se stessi che si sta ancora imparando.