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Flash Art Italia (1999 - 2001) Anno 33 Numero 222 Giugno-Luglio 2000



I Mega Show di New York

Frantiska Tim Gilman Sevcik

Greater New York versus Biennale del Whitney



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Dalla Biennale del Whitney: Lisa Yuskavage, Jennifer Reeder, Kim Dingle, Jem Cohen with Fugazi

Dalla mostra Greater New York: Javier Tellez

Dalla mostra Greater New York: Olav Westphalen

Sarà pure una coincidenza, ma a New York si sono aperte, a un mese di distanza, due mega mostre: Greater New York, prima collaborazione tra il P.S.1 e il MoMA, e la Biennale del Whitney. Mettetele testa a testa e Greater New York eclissa la Biennale: ha il quintuplo dei curatori e quasi il triplo degli artisti e riesce a mantenere uno standard di qualità più alto senza affidarsi all'ancora di salvezza dei nomi più accreditati.
Le due rassegne non si impegnano molto nel differenziarsi o nell'avanzare pretese di rappresentatività: la direttrice del P.S.1, Alanna Heiss, definisce Greater New York un viaggio alla scoperta delle nuove idee di artisti giovani o semi-giovani - comunque, nessuno supera i 50 anni - residenti a New York e nella sua area suburbana, almeno part-time. E se questo sembra un inno alla vaghezza, è perché la natura di entrambe le mostre è volutamente generica. Non c'è un tema, né il tentativo di individuare delle tendenze: nessuno vuole sbilanciarsi in affermazioni sullo stato del mondo dell'arte, probabilmente perché non si può dire nulla. La situazione sembra aperta: come l'America, anche l'arte attraversa una fase favorevole, sottolineata dall'assenza di posizioni estremistiche, politiche o anche solo polemiche. C'è energia, ma nessuna urgenza; ci sono idee, ma nessun dibattito. Negli ultimi anni, la povera Biennale del Whitney subisce un triste destino: il pubblico dell'arte si aspetta che sia brutta, come poi accade puntualmente. E a due anni di distanza l'edizione precedente finisce per sembrare migliore. La Biennale di quest'anno non fa eccezione: affidata a sei curatori "periferici", invitati a fornire una panoramica dell'arte statunitense il più possibile democratica e lontana dai giochi del centralismo newyorkese, la rassegna è senz'altro democratica, ma nell'accezione peggiore del termine; mediocrità e pochezza vi sono rappresentate al meglio. Anziché selezionare lavori innovativi, sempre piacevoli da vedere, i curatori sembrano essersi accontentati di quelli derivativi, o decisamente obsoleti. Una categoria che avrebbe potuto sparire è quella delle opere noiose realizzate da artisti famosi, come la sala di Annette Lemieux invasa da piedi di cera, i grandi dettagli fotografici del corpo appesantito di John Coplans e le due sonnolente macchine di interazione sociale della serie Immigrant Instrument di Krzystof Wodiczko. Salvando però la scultura di Robert Gober, più perturbante che mai - una fusione tra i celebri lavandini dell'artista e una vischiosa, ripugnante versione delle sue gambe pelose. Gli ingredienti sembrano famigliari, ma il risultato è totalmente diverso. E l'installazione di Hans Haacke contro la censura governativa? Decisamente meno interessante delle polemiche che ha suscitato prima dell'inaugurazione: il sindaco di New York aveva cercato di farla rimuovere, perché il suo nome figura (insieme a quello di Jesse Helms) in calce ai commenti sull'arte contemporanea di alcuni autorevoli senatori, riportati sul muro in alfabeto gotico, con ovvia allusione alla censura nazista.
Curiosamente, meno di dieci artisti partecipano a entrambe le mostre. Per quale ragione E.V. Day - con la sua bambola gonfiabile sul punto di esplodere al P.S.1 e il suo vestito da sposa sul punto di esplodere alla Biennale - sia riuscita a infifltrarsi al P.S.1 e al Whitney, e per di più in pole position, è un mistero. Invece, le videoproiezioni in bianco e nero di Shirin Neshat sono tra le cose migliori esposte. Ma anche in questo caso vince il P.S.1, aggiudicandosi Rapture, in cui alcune donne islamiche si avventurano in mare su una piccola imbarcazione sotto gli occhi di una schiera di uomini in bianco, affacciati alle mura di una fortezza costiera marocchina. Il pezzo della Biennale, Fervor (un racconto più lineare sulla nascita del legame emotivo tra un uomo e una donna islamica, nato dall'incontro a un incrocio desolato), è un'opera minore, un complemento alla potenza e alla scala monumentale di Rapture. All'estremità opposta in termini di grandezza, ci sono i due affascinanti video di Paul Pfeiffer, che sembra aver imparato molto dal lavoro di Douglas Gordon. La Biennale accoglie Frammento di una Crocifissione (da Francis Bacon), un loop da 30 secondi di un giocatore di basket che urla, colto in un'agonia esistenziale e un rigore geometrico pari a quelli di un dipinto di Bacon. Il video del P.S.1 presenta invece un montaggio di inquadrature di un pallone da basket sospeso in un moto perpetuo, senza mai lasciare il centro dello schermo. Anche se la Biennale del Whitney non è all'altezza di Greater New York, le sue oscillazioni qualitative le fanno raggiungere vette che rendono accettabili anche i crateri. Doug Aitken fa l'asso pigliatutto - anche sulla copertina del catalogo - con una proiezione/installazione architettonica a otto schermi, Electric Earth, che segue un giovane afro-americano che danza attraverso la notte di Los Angeles al ritmo pulsante della megalopoli. Anche Sarah Sze supera se stessa con una scultura a spirale, un groviglio di tubature, scalette in alluminio e oggetti di ogni tipo. I lavori più strani sono, senza alcun dubbio, due opere esposte fianco a fianco alla Biennale: il cupo video di Carl e Karen Pope, che documenta la mortificazione della carne di Carl attraverso bruciature, tagli e il tatuaggio di una poesia della sorella sul suo corpo, e l'installazione di tele ricoperte da sgargianti stoffe multicolori realizzata da William De Lottie. Quest'ultima è tremendamente confusa e rivela come le nostre aspettative nei confronti dell'arte contemporanea siano ormai così basse, che a scavalcarle basta un po' di bizzarria personale.
La fotografia se la passa così male in entrambe le mostre che non vale la pena di citare nessuno degli artisti selezionati, il che è curioso, considerando l'incredibile quantità di buoni fotografi presenti sulla scena. Anche la pittura ha una rappresentanza ridotta: alla Biennale, gli unici a produrre un'impressione memorabile sono i perfidi ritratti della
borghesia bianca di John Currin, le maggiorate di Lisa Yuskavage e i patologici dipinti di animali di Kojo Griffin; al P.S.1, le figure semplificate e i colori squillanti di Lisa Ruyter, le deformità patinate e quasi monotone di Inka Essenhigh e i grovigli alla Cy Twombly di Brad Kahlhamer.
Buona parte dello spazio che avrebbe potuto servire alla pittura è stato destinato a installazioni che usano il suo stesso linguaggio. Alla Biennale, le barre metalliche di Linda Besemer da cui pendono strisce di plastica decorate ad acrilico, la riproduzione in cioccolato della Zattera della Medusa di Vik Muniz e le enormi macchie arancioni in smalto di Ingrid Calame; al P.S.1, la colorata montagna di spazzolini per pipe di Lucky DeBellevue, il sistema di circuiti di Diana Copper in cartoncino plastificato e feltro, lo scintillante cerchio di panda ritagliati di Rob Pruitt e la videoproiezione computerizzata di Jeremy Blake, ipnotico collage in movimento di pannelli e spazi segreti.
La Biennale sottolinea orgogliosamente la sua prima inclusione della NetArt, ma la confina in un'unica sala. Armatevi di pazienza e aspettate il vostro turno, sorbendovi la proiezione dell'interazione di qualcun altro: un vero spasso. Difficilissimi da vedere anche tutti i film e buona parte dei video, proiettati con cadenze deliranti. Perché ostinarsi a includere Internet, videoarte e cinema per poi trattarli come cittadini di seconda classe? Non si può organizzare una sezione della Biennale come un festival cinematografico solo per sostenere che è a 360°. Così le barriere tra generi non verranno mai abbattute. Invece, a Greater New York i video sono ben integrati con gli altri media. L'attento trattamento dei materiali più
problematici sembra il miglior frutto del connubio tra la visione fresca e l'uso anticonvenzionale degli spazi del P.S.1 e l'abilità del MoMA nell'assemblare qualsiasi mostra dalla A alla Z. Speriamo che questi novelli sposi possano invecchiare
insieme.

(Traduzione dall'inglese di Barbara Casavecchia)