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Aperture (2002 - 2004) Anno 5 Numero 9



Non c'è destino che tenga

Enrico Castelli Gattinara



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...ancora una volta il destino, l'inevitabilità, l'antitesi della scelta, era intervenuto a dirigere la mia vita (S. Rushdie, I figli della mezzanotte, p.458)

In tanti momenti della nostra vita siamo chiamati a scegliere, a decidere, a selezionare fra diverse possibilità quella o quelle che riteniamo più convenienti, più adeguate o più giuste. Dai comportamenti più elementari alle più elaborate e raffinate scelte ideologiche, religiose, politiche o professionali, è raro che qualcuno possa sottrarsi a quest'esperienza ad un tempo banale e decisiva.
Quante scelte sbagliate hanno condizionato la vita delle persone e dei popoli! Quante decisioni giuste hanno favorito lo sviluppo di personalità, situazioni e civiltà! Dopotutto, quasi ogni momento della nostra vita individuale e collettiva è determinata da scelte di ogni tipo, dal risveglio mattutino quando si scelgono gli abiti da indossare fino al coricarsi serale o notturno, quando si decide in che momento spegnere finalmente la luce e chiudere gli occhi, lasciandosi avvolgere dall'indecidibile fluire dei sogni che inevitabilmente ci prenderanno con sé.
Perché la scelta è affare della vita cosciente. Su questo non ci possono essere dubbi. Ma non per questa ragione la si può attribuire ad esclusivo patrimonio dell'umano genere: tutti i comportamenti animali sono determinati da scelte che si susseguono e che il più delle volte decidono della sopravvivenza e del benessere quotidiano. E sostenere che le scelte degli animali sono determinate geneticamente e perciò chiuse, privi com'essi sono di coscienza, non è del tutto vero e la storia evolutiva delle specie lo conferma. Certo, i margini di libertà comportamentale negli animali sono enormemente ridotti rispetto agli umani, ma non sono del tutto chiusi altrimenti la vita e la biosfera sarebbero un semplice meccanismo in nulla differente dall'inerte materia dei minerali. In secondo luogo, se il mondo animale fosse del tutto determinato come pretende una certa vulgata genetista, anche l'uomo lo sarebbe e non si spiegherebbe perché, a un certo stadio della sua evoluzione, abbia compiuto un salto che nessun'altra specie a noi nota è stata in grado di compiere.
Quindi affrontare il tema della scelta significa porre innanzitutto il problema della libertà, senza la quale non ha senso parlare di scelte di alcun tipo. Persino quando si dice che qualcuno si è trovato di fronte a "una scelta obbligata" s'intende sotto sotto che restava un margine, seppure infinitesimo oppure fatale, per sottrarsi a quell'obbligo.
Certo, la libertà è anche quella del sottrarsi alla logica delle scelte, non come libertà di scelta ma come libertà dalle scelte. La libertà dal dover fare delle scelte in ogni momento della propria vita, e quindi la libertà del lasciarsi andare senza scelte, senza opzioni, senza decisioni in quella che potrebbe essere chiamata l'essenza della vacanza e del riposo. L'ozio contro l'azione. Ma all'origine dell'ozio c'è pur sempre una scelta; e per quanto affascinante nel suo spirito decadente possa essere la scelta di non scegliere, l'ozio e l'inerzia alla Oblomov, nessuno in realtà ne potrebbe mai essere capace. Nessuno che abbia una sua identità personale e un equilibrio riconosciuto come non patologico (come individuo, innanzitutto, poi come comunità e come società - per questo non è possibile sottrarsi alle questioni dell'etica).
In ultima istanza, dice il filosofo, la libertà è sovrana. Lo è, come ha scritto Kant, perché scegliere è un'operazione razionale e la ragione caratterizza ciò per cui l'uomo differisce dall'animale. Tuttavia la scelta non è sempre stata ricondotta alla ragione. È una vecchia questione della filosofia, questa, che passa da Aristotele a S. Agostino e poi soprattutto attraverso la filosofia medievale in Tommaso D'Aquino, perché la definizione dell'uomo come "animale razionale" implicava per loro solo una facoltà conoscitiva superiore, ma non una libertà che nessun'altro animale può permettersi. Tale libertà sarebbe garantita all'uomo da un'altra caratteristica distintiva fondamentale: la volontà. Di qui la secolare differenza fra conoscere e agire che i filosofi moderni hanno cercato di risolvere.
Scegliere è dunque un atto della volontà che implica come condizione la libertà, sostenevano i medievali. Ne sorgeva naturalmente la questione tormentosa del libero arbitrio, vale a dire se l'uomo fosse o meno libero di scegliere anche il male. Insomma, se dietro la volontà potesse esercitarsi una qualche necessità, oppure se la volontà fosse indifferente e completamente libera da vincoli necessitanti. La risposta è stata inequivocabile: se non ci fosse libertà di scelta, l'uomo sarebbe privo di volontà, in nulla differente dai bruti. Vittima di un cieco destino, inevitabile e insindacabile, la stessa ragione umana sarebbe priva di senso,mera passione senza azione. Da questo punto di vista, sia Agostino che Duns Scoto sono filosofi della libertà, poiché riconoscono che è questa ad essere la condizione fondante della volontà cui l'uomo non può sottrarsi. È proprio per questo che l'uomo entra in un regime giuridico, nel senso che può essere giudicato sulla base delle proprie scelte: se ne fosse privo, o comunque limitato, la differenza fra il bene e il male sul piano del comportamento (delle azioni) non avrebbe luogo d'esserci. Ecco perché persino il comportamento parossisticamente indifferente di Oblomov è un atto di libertà.
Siamo, però, su un piano esclusivamente individuale. Quando ci si sposta su un piano sociale e collettivo, che è anche il piano delle regole e delle leggi, le cose cambiano. La libertà individuale deve incontrarsi con la società civile, anche se non per questo scompare - e ciò, come vedremo in seguito, ha la sua importanza.
Riprendiamo il ragionamento iniziale: ogni momento della nostra esistenza scegliamo e decidiamo qualcosa. Ma siamo veramente liberi nelle scelte che operiamo? Il nostro libero arbitrio - per usare il linguaggio medievale - è veramente così totalmente libero o non è piuttosto condizionato da tutta una serie di situazioni che ci vincolano necessariamente (la cultura cui apparteniamo, il sistema di leggi della nostra società, la lingua che parliamo, le condizioni economiche che ci fanno vivere, ecc.)? P. Ricoeur ha utilizzato la formula di "servo arbitrio" per indicare proprio questo duplice aspetto della condizione umana: fondamentalmente libera, eppure anche serva. Persino Aristotele si era posto il problema, quando aveva chiamato "proairesis" la scelta (proairesis significa preferenza), intendendo con ciò che le possibilità offerte alla scelta potevano essere predeterminate, e che la scelta era vincolata alle possibilità offerte.
Lo sviluppo delle scienze umane ci ha aperto poi gli occhi su molti aspetti della vita individuale e collettiva. La psicanalisi sostiene che i nostri comportamenti non sono mai del tutto liberi, e che dipendono da alcune esperienze cruciali vissute nei primissimi anni di vita, l'antropologia ci ha mostrato quanto siamo vincolati alle relazioni parentali, la sociologia quale sia il peso delle convenzioni, ecc. Una donna che nasce nell'anno 2000 in Iran o in Afganistan ha certamente meno scelta di una donna che nasce in Francia o in Italia. Il figlio di un contadino eritreo ne ha di meno rispetto al figlio di un contadino canadese. Certo, il loro libero arbitrio, per quanto asservito dalle diverse condizioni esistenziali, non viene intaccato nella sua essenza, eppure di fatto è assai più limitato quello dell'uno rispetto a quello dell'altro.
Persino nelle nostre società avanzate che sbandierano l'acquisizione di una libertà senza limiti le cose stanno diversamente e i poteri più o meno occulti di controllo negano ciò che apparentemente promettono. L'omogeneizzazione economica del presunto libero mercato mondializzato ha posto più vincoli negli ultimi anni che durante le fasi più oscure del colonialismo. Paesi che avevano un proprio equilibrio economico interno, diciamo di sussistenza, sono stati spazzati via economicamente dagli imperativi della mondializzazione economica e ridotti letteralmente alla fame.
Più da vicino, basti pensare al più efficiente regime della libertà politica di scelta rappresentato dalle democrazie: che scelta resta quando alcune istituzioni cominciano a invadere sempre di più gli spazi del privato? Quale scelta è quella che diventa obbligatoria nei confronti di un servizio sanitario statale che si arroga il diritto di decretare per legge quando una persona è da considerare morta o no al fine di poterne estrarre degli organi? A prescindere naturalmente dalla legittimità di una legge che impone di dichiarare il proprio dissenso, e non il proprio assenso, se si vuol essere donatori di organi, la questione ad un tempo etica e politica è su chi possiede e può decidere del corpo di una persona. Sono problemi su cui il mondo politico attuale comincia a interrogarsi. Ma in realtà essi nascono anche dal basso.
Fino a che punto siamo liberi di scegliere, quando la mattina ci alziamo e decidiamo quale abito indossare? O cosa mangiare per colazione? O quale programma televisivo vedere la sera? Oggi sappiamo che su questa minima libertà privata c'è molto da dire, perché convenzioni sociali, moda, religione, pubblicità e leggi di mercato restringono notevolmente l'arco delle possibilità. È banale, eppure è essenziale per capire cos'è una scelta, cosa significa decidere qualcosa e quanto siano irrequieti gli spazi delle scelte.
Non si può insomma parlare di scelte senza prendere in considerazione le condizioni in cui esse avvengono, i criteri adottati, le conseguenze possibili, il regime di libertà in cui si esprimono. Ignorare questo significa rinunciare di fatto alla propria libertà. Solo chi è consapevole di tutta la servitù del proprio arbitrio, ossia solo chi è consapevole tanto dei propri limiti quanto di quelli imposti dal mondo sociostorico ed economicopolitico in cui vive, è veramente libero di operare delle scelte che rivelino la sua essenziale libertà. Mantenere aperta la scelta significa sapere cosa si può scegliere senza lasciarsi ingannare dall'incredibile numero di scelte obbligate con cui ci si illude quotidianamente di esercitare la propria presunta libertà. Significa anche costruire la possibilità di una scelta effettiva, quando questa viene meno. Ciò che caratterizza la nostra epoca ancora come moderna - in questo Habermas ha ragione - è la ricerca di una consapevolezza critica della libertà, ossia sapere riconoscere e rivendicare una libertà che non sia semplicemente un'illusione. Ed eventualmente scegliere di conquistarla o di riappropriarsene.
Occorre quindi anche riconoscere i margini entro i quali viene costretta la nostra libertà, vale a dire per esempio quanto e quando un'istituzione limita il nostro vitale spazio di manovra. È quanto si riflette nella stessa capacità di operare delle scelte: quando un sistema sociale organizza tutti gli ambiti della vita dei propri cittadini, pervadendoli con normative che invadono sempre di più gli spazi una volta considerati inviolabili (per esempio il proprio corpo), o quando uno spregiudicato meccanismo economico registra e controlla sempre più completamente ed efficacemente i nostri comportamenti e le nostre preferenze (come nel caso dell'informatizzazione dei nostri dati attraverso carte di credito, tessere magnetiche, codici fiscali, carte sanitarie, ecc.) quali scelte restano?
Più in dettaglio, e per riprendere un esempio accennato prima: il supermercato o l'ipermercato rappresentano veramente un ampliamento delle nostre possibilità di scelta fra merci diverse? O non rappresentano invece un meccanismo per veicolare e costringere la scelta alimentare su un certo tipo di produzione industriale a scapito di una tradizione di vendite al dettaglio impostate in modo diverso (sulla qualità, o sulla simpatia del negoziante, ecc.). Quello che in Italia è successo coi cartelli costituiti dalle compagnie d'assicurazione o dalle compagnie petrolifere mostra con chiarezza quanto fosse ingannevole e in malafede l'apologia del liberismo economico fatta in nome di un mercato mosso dalla possibilità/capacità di scegliere da parte del consumatore. La presunta libertà di scelta di una merce è semplicemente un'illusione in un mercato che rende sempre più omogenea e uniforme la produzione, dove i criteri della scelta si riducono a effetti d'immagine generati da specifiche strategie pubblicitarie, e sempre meno sulle caratteristiche effettive delle merci (che tendono a equivalersi tutte).
Naturalmente, una libertà totale nella scelta di un prodotto non potrebbe esistere, né può esser mai esistita, ma in un mercato controllato da enormi potenze industriali i margini di scelta finali per i consumatori sono molto più ristretti che in un mercato composto da una pluralità disomogenea di produttori minori (è il caso della lotta sleale fra produzione artigianale e industriale). Oggi, dopo il fallimento di politiche economiche basate su quella che Hobsbawn ha chiamato "teologia" del liberismo, persino gli economisti più intransigenti riconoscono che il mercato non può né deve essere lasciato completamente libero. In primo luogo perché su larga scala i danni arrecati sarebbero maggiori dei benefici; in secondo luogo perché tale presunta libertà è una chimera (in quanto non è possibile isolare un'economia dal suo contesto sociale, storico, politico, ecc., come hanno ben mostrato le cure della Thatcher in Gran Bretagn o di Reagan negli USA, prontamente interrotte dai governi successivi).
Il fatto è che il termine libertà viene utilizzato senza troppi scrupoli grazie alla sua grande forza evocativa (come nel caso italiano di quelle forze politiche alcune delle quali assai poco libertarie raccolte sotto l'alleanza chiamata "Polo delle libertà"). Ciò non toglie che molti spazi di libertà collettiva siano talmente ridotti da essere praticamente invisibili, il che ha contribuito al fenomeno sempre più preoccupante in Europa che è il "distacco" fra politica e società (da cui deriva l'astensionismo elettorale, che rappresenta una consapevolezza, da parte dell'elettorato, del fatto che i margini di scelta si sono troppo ridotti per essere prese sul serio le elezioni). Le persone sono sempre meno libere di scegliere i modi della propria collettività, o gli spazi del proprio intervento pubblico. Il che però non significa che ne siano diventate incapaci, e la scienza politica sa bene quanto sia necessario rivedere alcune delle sue nozioni di base per comprendere ciò che accade al presente. La storia infatti va avanti, nel bene o nel male, e le forme della libertà si articolano nel sistema dei rapporti che si trasformano nel corso del tempo, senza che si verifichino gli scenari apocalittici paventati da Orwell. Occorre però rivedere le vecchie categorie della politica, ormai inapplicabili.
Perché se è vero che non ha senso parlare di libertà in termini assoluti o astratti (visto che siamo costretti alla contingenza del reale, e che la libertà ha valore in relazione a un certo stato di cose che non riguarda solo il singolo individuo), è altrettanto vero che c'è sempre, per quanto ristretto o rischioso possa essere, un margine minimo, un residuo irriducibile di scelta libera, che è poi quanto permette (eticamente e politicamente) all'essere umano di restare tale, nella sua dignità, anche quando è costretto alle situazioni più estreme. Nelle istituzioni totali, persino nei regimi carcerari più costrittivi o sotto le dittature più feroci, la scelta per quanto ridotta ai minimi termini resta pur sempre possibile. Sono le diverse forme di resistenza. È la scelta di fronte al compagno di cella, la scelta di fronte al pasto da consumare, la scelta di resistere alle umiliazioni, la scelta di sé stessi, la scelta che s'incunea negli interstizi, nelle crepe, nelle fessure che ogni istituzione o regime totale inevitabilmente comporta, perché mai si è data una situazione la cui assolutezza fosse perfetta (e lo dimostrano i comportamenti individuali nei campi di sterminio nazisti, le innumerevoli ed infime crepe che malgrado le atrocità lasciavano uno spazio possibile, chiuso definitivamente solo quando un essere umano crollava scivolando in quello stato irreversibile di larvalità chiamato "musulmano").
C'è però un caso in cui - a parte la finzione letteraria - la libertà della scelta sembra manifestarsi come un atto di abdicazione (che pure resta volontario), come libertà dalla scelta. Non quella di Oblomov, ma la sua situazione speculare, che può essere ben reale in un mondo d'identità personali costituite (quindi escludendo l'infanzia e l'ambito pedagogico-educativo che richiederebbe un discorso a parte): è il regime dell'obbedienza assoluta, il giuramento alla cieca fedeltà e alla mera esecuzione degli ordini. Basti pensare al mondo militare, dove il giuramento all'obbedienza e alla fedeltà assumono un valore formalmente assoluto. Il soldato moderno, qualunque sia il suo grado, non può scegliere: il suo giuramento di fedeltà è indissolubile e indiscutibile. La sua obbedienza è cieca, il suo compito è quello di eseguire esclusivamente gli ordini e la sua virtù è quella di farlo senza esitazioni.
È stata questa la linea difensiva scelta per esempio dai gerarchi nazisti durante il processo di Norimberga e sedici anni dopo da Eichmann durante il processo cui venne sottoposto a Gerusalemme nel 1961, dopo essere stato rocambolescamente rapito dai servizi segreti israeliani in Argentina.
Nel libro che H. Arendt dedica al processo Eichmann viene data particolare importanza proprio a questo aspetto, l'obbedienza a ordini superiori, per mostrare quella "banalità del male" che ha reso possibile che gente perfettamente normale commettesse l'inconcepibile. La tesi che la Arendt difende in tutto il suo resoconto del processo (che costituisce il libro) dà il titolo all'opera: La banalità del male (tr. it. Feltrinelli, Milano, 1999), appunto perché Eichmann non era quel mostro sanguinario, sadico e violento che si era detto, ma un banalissimo piccolo borghese pieno di ambizioni carrieriste più o meno frustrate come centinaia di migliaia di suoi simili in tutto il mondo. Eichmann, ossia la persona che era al vertice dell'organizzazione di espulsione e deportazione degli ebrei prima fuori dallo spazio vitale della Germania, poi verso i campi di concentramento e di sterminio, era un uomo semplice, privo d'immaginazione, incapace di compiere astuti traffici e tessere buone relazioni, ma solerte nello svolgimento del suo dovere ed esperto nel suo campo specifico. Non era uno stupido, spiega la Arendt, "era semplicemente senza idee (una cosa del tutto diversa dalla stupidità), e tale mancanza d'idee ne faceva un individuo predisposto a divenire uno dei più grandi criminali di quel periodo" (p.290). Egli infatti "non riuscì mai a capire bene quello che stava facendo", ma scelse di coinvolgersi completamente in una situazione dove si sentiva perfettamente a suo agio, ossia in una macchina il cui scopo finale, lo sterminio fisico di un popolo, gli era quasi indifferente: purché l'organizzazione funzionasse bene, purché i treni carichi di deportati viaggiassero in orario e non ci fossero intoppi, purché le evacuazioni avvenissero in ordine e i criteri di efficienza fossero rispettati, il destino finale di uomini, donne e bambini, vale a dire il "contenuto" e l'oggetto dell'organizzazione non lo interessavano e lo preoccupavano marginalmente.
Era insomma una persona normale, comune, né stupida né indottrinata oppure cinica. E proprio questo il processo di Gerusalemme non riusciva a cogliere, cercando ad ogni costo il mostro, la perversione, l'anormalità. Né i giudici, né l'accusa potevano infatti concepire che una persona normale fosse a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Eichmann, come risultava dalle sue deposizioni, non era neppure eccessivamente antisemita e "personalmente" non aveva nulla contro gli ebrei. Solo che egli era del tutto incapace "di vedere le cose dal punto di vista degli altri". Le scelte fatte riguardavano la sua carriera, il suo posto nell'ufficio che gli era assegnato, lo svolgimento del suo dovere, l'obbedienza alla legge (e ogni ordine di Hitler aveva valore di legge). Cercò anche di spiegare che ogni tedesco, per non dire ogni altra persona ligia al proprio dovere, se fosse stata al suo posto avrebbe agito come lui, che nei fatti non aveva ucciso nessuno con le proprie mani, non aveva fatto violenza o infierito su nessuno, anzi era infastidito e nauseato dalle relativamente poche scene di crudeltà e massacro cui assistette in alcuni sopralluoghi.
Il processo dimostrò con testimonianze attendibili che era possibile, anche nella Germania nazista e fra i militari (persino fra le SS), fare scelte diverse o non obbedire agli ordini (senza fra l'altro incorrere in tragiche conseguenze). Ma la Arendt, insistendo sulla normalità di Eichmann e dimostrando la banalità del male, voleva sottolineare quanto fosse ad un tempo tremendo e banale giustificarsi dicendo che la propria colpa veniva dall'obbedienza, da sempre esaltata come una virtù. Giustificazione banale di un uomo banale che si è attenuto alle proprie misere, banalissime scelte di obbedienza e fedeltà, senza voler più distinguere l'umanamente lecito dall'illecito, abdicando alla propria capacità di continuare a scegliere e rinunciando così alla responsabilità di una scelta pur sempre possibile, ma sulla quale non ci si vuole affaticare (perché ci si lascia trascinare dalla corrente, si obbedisce senza pensare troppo, si compie il proprio lavoro, ci si affanna nel proprio spazio di affari fino a diventare incapaci di pensare al resto, agli spazi circostanti, al punto di vista degli altri).
La Arendt conclude: "Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n'erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. [...] Questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica [...] che questo nuovo tipo di criminale, realmente hostis generis humani, commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male" (p.282).
Questo vuol dire che uomini così diventano incapaci di scegliere? Assolutamente no, perché alla base del loro comportamento c'è una scelta precisa, e nella lenta evoluzione dei fatti essi rinnovano quella scelta di non guardare l'orrore in faccia, di non chiedersi cosa accade al di fuori del proprio cerchio ristretto, di non pensare. Scegliere è banale, e per questo inevitabile. Nessuno può pensare che liberandosi dalla scelta si sottrae alla responsabilità di averlo fatto.
Anche quando i margini sono stretti o si è giurata obbedienza a qualcuno o qualcosa, resta la responsabilità delle proprie scelte e a nulla vale illudersi di poterne fare a meno. Anzi, proprio là dove i margini si stringono in lacci più o meno visibili e dove le scelte individuali costringono in comportamenti senza alternative, allora occorre saper scegliere. Occorre saperlo soprattutto in quei momenti e quegli spazi in cui è rimasto possibile, in quelle infinitesime crepe, in quelle pieghe irriducibili, in quei brevi istanti che inevitabilmente ogni realtà - fosse anche la più cupa - apre al suo interno. Come se si trattasse di una vigilanza minimale del pensiero cosciente.
Riprendendo le parole della citazione iniziale sul destino, allora, bisogna ribadire che non c'è inevitabilità storica e condizionamento assoluto, quindi non c'è giustificazione senza assunzione di responsabilità. Ecco perché è importante continuare a capire cosa significa scegliere.