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Aperture (2002 - 2004) Anno 5 Numero 10



La memoria

Enrico Castelli Gattinara



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Ionesco

Montale

"La memoria - ha scritto P. Janet - ha lo scopo d'ingannare l'assenza ed è questa lotta per ingannare l'assenza a caratterizzarla". L'assenza di cosa? Del presente? Del tempo? Di ciò che si è vissuto e non si vive più?
Si è molto parlato di memoria, negli ultimi tempi, e inevitabilmente anche di storia. Il più delle volte al singolare, come di categorie astratte ben consolidate sulle quali scontrarsi in diverse interpretazioni. A guardar bene, invece, le voci non sono in accordo fra loro ed è difficile trovare due opinioni che vadano d'accordo sull'argomento. Perché la memoria è difficile lasciarla al singolare e si rischia, generalizzandola, di confonderne i piani. Per questo proviamo qui a parlarne come al solito a più voci, partendo da punti di vista differenti. Lo facciamo consapevoli dei limiti che il tema impone e senza alcuna pretesa di essere esaustivi: vogliamo giusto dare un contributo in più, uno sguardo ulteriore per occhi diversi da quelli su cui paradossalmente s'interrogava Ionesco in poche, lapidarie frasi: "Abbiamo il passato dietro di noi e il futuro davanti. Non vediamo l'avvenire, vediamo il passato. È curioso, dal momento che non abbiamo gli occhi nella schiena".
Forse perché la memoria non appartiene esclusivamente al passato. Forse perché più che dietro, ci sta di fronte. Forse ci avvolge in un gioco di cui noi siamo pedine, o dove pedina invece è lei. E come in ogni gioco, esistono regole fisse e altre che si possono via via stabilire. C'è chi gioca e chi sta a guardare. C'è chi crea il gioco giocandolo, chi lo usa inconsapevolmente, chi lo rifiuta, chi lo rompe e chi l'aggiusta. Ma che gioco è resta ancora indeciso.
Quando si parla di memoria, si pensa sempre al passato e la si identifica a una specie di deposito dove si accumulano informazioni di ogni tipo. Nella sua staticità archivistica, la memoria è vincolata al tempo trascorso e all'immodificabile configurazione di ciò che vi è rimasto impresso. Negli articoli qui contenuti si cerca invece di mettere in discussione proprio questo rapporto col tempo, problematizzando la stessa unitarietà della memoria. Perché non è detto che il tempo non si possa pensare al plurale e la memoria svincolarla dalle catene del passato. Qual'è, oggi, il senso della memoria che abbiamo come civiltà? Ne abbiamo uno? Ne abbiamo molti? Ne abbiamo bisogno? C'è chi ne cerca di più comode come c'è chi ne subisce l'oltraggio, l'ossessione o l'assenza.
Come individui e come società, come cultura e come storia, noi siamo ciò che ricordiamo e ciò che dimentichiamo. Avere memoria ci permette di non essere condannati a una solitudine senza speranza, ma non tutte le memorie si equivalgono. La memoria è un gioco che è costantemente in gioco, mai fissa nel tempo eppure mai serva dell'arbitrio. È azione più che passione, presenza costante e non serbatoio di un passato inerte. In lei si giocano i sensi delle vite che si legano e si sciolgono fra loro, nei tempi e nelle storie che ne tessono la rete.
Ci appartiene e non ci appartiene, come in ogni gioco che si rispetti. Memoria che è memorie, molteplicità che non si lascia definire e fa della sua sfuggente fragilità una solida nebbia, ma una nebbia che è presente.
Montale, fra molti altri, ha saputo dirlo così:
La memoria vivente è immemoriale
non sorge dalla mente, non vi si sprofonda.
Si aggiunge all'esistente come un'aureola
di nebbia al capo. E' già sfumata, è dubbio
che ritorni. Non ha sempre memoria di sé.