Equipèco Anno 6 Numero 20 estate 2009
A proposito di Siri Kollandsrud
In un fondamentale saggio di fine anni venti, Georges Bataille introduceva nell’arte il concetto dell’informe, «termine che serve a declassificare, posto che generalmente si esige che ogni cosa abbia la sua forma».
In contrapposizione alle più rassicuranti, polite determinazioni allora predilette da scienza e filosofia, l’informe irrompeva a denotare un’alterazione, la presenza di una trasgressione o, per usare le parole di Rosalind Krauss che molto ha studiato la questione, «lo sfumare dei limiti intorno al termine». Pur attivato in un contesto storico e critico assai lontano ormai dall’originario campo di Bataille, il dispositivo dell’informe non cessa di mostrarsi significativo, assumendo anzi un’ulteriore valenza nella sua vivente contrapposizione (non tanto a diverse categorie concettuali, quanto) a quel disagio, da ultimo contrabbandato per unmonumental, della precarietà confusa che domina le principali esposizioni, quando non più direttamente le esperienze artistiche contemporanee.
Ora, simile discorso ben si presta alla verifica dell'opera di Siri Kollandsrud, artista di origini norvegesi da tempo attiva a Copenhagen e spesso di passaggio in Italia (la sua più recente personale si è tenuta a Roma nello scorso dicembre), poiché è propriamente il sentimento dell’informe a imporsi in ogni sua piega, mosso da istanze che non si deve temere di riconoscere nordiche e femminili. Depongono a favor critico e spirituale di simile affermazione la liberalità struggente tanto di materiali che accostamenti, risolutamente al di fuori della portata di qualsiasi artista dalla costituzione mediterranea: vedi i colori acidi degli acquerelli, la leggerezza al contempo frivola e torbida delle linocut in cui corpi generosi di donne impacciate o con una bara sulle spalle si alternano ora a mescolanze anfibie di membra umane, ora a sontuose celebrazioni del potere visivo del drappo e della macchia. È il caso, più in generale, del perturbante immaginario di tutta l’opera dell’artista, sempre sospeso tra pulsioni ctonie e minime trasfigurazioni.
Si parlava dell’informe, appunto, che, se non va confuso con il precario, neppure compartecipa delle forme accademiche dell’informale: di fatto, quel che si afferma è qui piuttosto un’esuberante organicità, la proliferazione cellulare di più cose insieme e all’apparenza incongruenti, al modo di una soffitta dell'animo dove matasse-sculture di lana si accumulano a disegni toccati dalla grazia dello schizzo, stampe emergenti dall'oscurità degli inchiostri come sogni al limitare del sonno, installazioni effimere di materiali eventuali, ma che appunto nell’insieme trovano e affermano un senso, all’insegna di un’accogliente straniazione (e sfortunato chi non ha mai provato il piacere del rifugiarsi in soffitta, accolto da masse buie di oggetti e ricordi che parlano di sé, sussurranti d'altro). Qui, insomma, c’è niente ma qualcosa, la celebrazione – secondo le stesse parole dell’artista – di quei momenti nella vita di ognuno quando si verifica un indistinto, l’informe appunto che sfugge al controllo del quotidiano: ed è un dono di colori, una festa oscura, non più definizioni ma tensioni dell’immaginazione, aperte sulla meraviglia.
Note
La teorizzazione originaria di Georges Bataille a cui si fa riferimento nel testo è stata svolta nel saggio Informe (dalla rivista Documents, n. 7, 1929). La rete abbonda di rimandi alla stessa: tra i saggi più interessanti di immediato reperimento, v. quello di Alessandra Violi, L’immagine informe: Bataille, Warburg, Benjamin e I fantasmi della tradizione, www.farum.it). Quanto a Rosalind Krauss, tra i diversi scritti in cui si occupa del tema v. da ultimo in italiano L’originalità dell’avanguardia e altri miti modernisti, Fazi 2007.
Luca Arnaudo, vive e lavora a Roma