Juliet Anno 21 Numero 118 giugno 2004
Andrea Di Marco
Andrea Di Marco, classe 1970, vive a Palermo. È parte di quella agguerrita pattuglia di giovani artisti siciliani che vede in Bazan, Di Piazza e De Grandi i validi componenti del “ritorno delle cose a sé stesse”. Le sue opere, rappresentate da Sergio Tossi (Firenze) e Annovi (Sassuolo, MO), sono quotate con coefficiente 1,7; per ulteriori info: tossiarte@katamail.com o info@galleriannovi.com
Andrea, che cosa ci fai in Sicilia? Sei forse in attesa del ponte sullo stretto?
—Caro Roberto, in Sicilia ci sono nato. E poi è sempre meglio che vivere nel Bangladesh. Riguardo al progetto del tanto discusso ponte, me lo immagino come un Boeing 747 che atterra senza carrello! A mio parere dovrebbero prima ultimare le autostrade e le ferrovie prima di propinarci delle opere titaniche che poi finiremo di pagare nei secoli. E poi probabilmente dovrà restare chiuso sei mesi ogni anno a causa del vento a forza sette. Bello, magari, ma serve davvero a qualcosa.
Quali sono le tue frequentazioni, a Palermo e al di fuori dell’isola?
—Tra le mura cittadine le persone sono quelle che conosci da sempre, più tutte quelle che puoi incrociare in un popoloso quartiere che si estende per un milione di teste, per un milione di automobili e per un milione di problemi. Fuori, oltre lo stretto di Scilla e Cariddi, direi che l’Accademia di Urbino per me è stata molto importante: avevo diciott’anni e non ho perso tempo a conoscere persone speciali che provenivano da posti speciali e con i quali sono ancora in contatto, come Fulvio Di Piazza, Mario Consiglio e Rocco Dubbini.
Allora, in definitiva, ti trovi bene in questa realtà mediterranea?
—A volte questa realtà mi fa incazzare; potrebbe essere tutto strepitoso se non fosse per l’inettitudine e l’egoismo becero dei prepotenti e dei leccaculo. Contemporaneamente esistono delle presenze che, pur vivendo in Sicilia, hanno avuto la capacità di confrontarsi con forme e sistemi culturali differenti. Per esempio, non bisogna dimenticare che Salvo è di origine siciliana.
Piatti, dolci e vini tipici preferiti?
—Ti dirò che di quelle che vengono chiamate le prelibatezze o le specialità non me ne importa più di tanto, anche perché sono allergico a un casino di alimenti, e da qualche anno pure al vino, cazzo! A Palermo, esiste comunque un dolce tipico che viene prodotto dalle monache di un piccolo convento. Il suo nome è tutto un programma: “minnuzze di vergine”, ovvero tette di vergine. È prevalentemente a base di pasta di mandorle e ha un pinolo per capezzolo. Quando lo mangio immediatamente la mia mente mi porta a un festino erotico/culinario, in cella con la perpetua.
Perché la pittura?
—Perché così si diventa amici di Mantegna, Morbelli, Picasso e di tutti quelli che quando crepano hanno nelle vene più cadmio che globuli rossi.
La tua pittura ideale quali caratteristiche deve avere?
—Più che la pittura preferisco il pittore o, meglio, il percorso generale che porta all’idea e al gesto con la relativa zampata finale. Infatti mi capita spesso di ricredermi sull’opera di alcuni artisti (vivi o morti, poco importa), la cui fatica si rivela inevitabilmente nel mio lavoro con il dovuto tempo. Furtivamente, quasi per dispetto.
La definirei un po’ narrativa e un po’ evocativa, ma anche ironica nella scelta consapevole di soggetti quotidiani e antieroici…
—Sì, fondamentalmente inadeguata… Di solito estraggo quei soggetti che hanno perso il loro valore di mercato: il loro progressivo abbandono mi rende piacevolmente malinconico.
Il clima e il paesaggio come entrano nel tuo lavoro?
—Se fossi nato in Trentino forse sarei stato più alto, ma probabilmente avrei dipinto le stesse cose. Ci nasci con il punto di vista: l’importante è non condursi da formica…
Nei tuoi più recenti lavori si avverte soprattutto la ruggine, il sudore, la pesantezza metallica, tutte “qualità” che giocano di sponda con fondali d’acqua e di pietra…
—Forse è la luce del sole, che tra le ore 15 e le 19, fa sembrare bello e affascinante tutto quello che rimane incustodito: oggetti che per la loro specifica utilità o inutilità mi attirano e quasi quasi mi ipnotizzano.
Rapporti con le gallerie e con il mercato?
—Buoni. Faticosi ma buoni…
Quindi ti senti sufficientemente sostenuto da questo insieme di relazioni che a onta della tua giovane età hai intessuto in questi tredici anni di attività professionale?
—I miei quadri mi sostengono, il resto viene da sé.