Urban Anno 6 Numero 54 dicembre 2006
Shepard Fairey aka Obey, ovvero un insidioso virus dell’art system, un reazionario/rivoluzionario che celebra la grandezza di un fallimento dell’estetica
Diciamolo chiaramente: le fiere d’arte contemporanea sono diventate come l’Olanda, un paesaggio di opere d’arte uniforme e piatto. Quello che vedi ad Artissima di Torino, la più giovanilista e all’avanguardia (in artistichese si dice “cutting edge”) delle fiere italiane, lo rivedi qualche mese dopo in chiave minore al Miart di Milano e in versione più nazional popolare ad ArteFiera di Bologna. Dovunque ti giri è una sequenza di immagini e di nomi omologata dalle scelte dei comitati scientifici che decidono a chi destinare gli spazi espositivi e a chi no. Come? Ovviamente in base alle scelte della più esclusiva di tutte le fiere d’arte del mondo, Art Basel, con la sua sorellina Miami Art Basel, nonché della più modaiola, la londinese Frieze, frequentata anche dalle star dello spettacolo.
Un ristretto manipolo di collezionisti, galleristi e musei, arbitri del gusto, detta le regole del mercato e la massa segue obbediente.
Dunque per trovare qualcosa di interessante, che si distingua dai soliti articoli alla moda proposti dalle multinazionali del gusto, c’è una sola via d’uscita: andare a pescare nel passato, in ciò che è completamente desueto, addirittura bollato come un fallimento dell’estetica, nella retorica più bieca da propaganda, ovvero il realismo socialista. Contro la retorica del contemporaneo non resta che la storia della retorica.
Ci ha pensato Shepard Fairey, americano classe 1970, i cui lavori sono visibili a Bologna ad ArteFiera (dal 26 al 29 gennaio 2007) nello stand della parigina Galerie Magda Danysz. Essendo un outsider – viene dal mondo della grafica e del design – Fairey ha intuito quale fosse la vera operazione di rottura dei codici dominanti.
Ricordate il film They live (in italiano era tradotto “Essi vivono”) di John Carpenter? Un giovane vagabondo, grazie a particolari occhiali neri, scopriva che molti uomini erano in realtà degli extraterrestri mascherati che condizionavano l’umanità attraverso messaggi pubblicitari subliminali. Con l’aiuto di un operaio nero il protagonista riusciva alla fine a smascherare lo yuppismo reaganiano trasmesso mediante i comandamenti “consuma, dormi, guarda la televisione”. Da lì venne l’idea di Obey (obbedisci), diventato anche pseudonimo di Fairey, con il quale l’artista firma manifesti con una grafica molto semplificata, ma allo stesso tempo di oscura interpretazione perché priva di un vero prodotto da promuovere. L’idea è quella di sovvertire la legge del manifesto pubblicitario, ossia la trasmissione immediata del messaggio, per sconcertare chi guarda e indurlo a farsi la domanda: che cosa sto capendo? Che cosa sto guardando? Cosa diavolo mi stanno chiedendo di comprare?
Nulla. In realtà Fairey non ha messaggi particolari da lanciare (va bene, a volte c’è il tema della pace o della guerra in Iraq, ma non sono veri messaggi, quanto piuttosto slogan). Quello che interessa a Obey è la fenomenologia stessa del messaggio, e cioè verificare la reazione della gente.
Da bravo studente della comunicazione, Fairey conosce il detto di Marshall McLuhan “The medium is the message”, dunque mentre ancora frequentava la Rhode Island School of Design, nel 1989, si era inventato una campagna di adesivi con la scritta “André the Giant has a posse” (che poi ha girato il mondo anche nella forma “Obey Giant”). Tutto era nato per caso. Volendo insegnare a un amico come si faceva uno stencil, Fairey ritagliò la faccia di un celebre lottatore di wrestling di origine francese, André Roussimoff, due metri e venti di altezza per 234 chili, conosciuto anche come André the Giant. Sempre per gioco attribuì al gigante una posse, letteralmente un gruppo armato, ma che nel gergo degli skater, cui appartiene Fairey, è semplicemente un gruppo di amici. Da qui nacque un fenomeno che investì le città della California e via via del resto d’America. I giovani si divertivano ad attaccare autoadesivi di André sulla loro macchina, sugli skateboard, sui motorini, sui giubbotti anche senza conoscerne il significato. Non solo: Fairey poteva facilmente inviare la mascherina dello stencil con la faccia di André a chiunque gliene faceva richiesta. In cambio, riceveva le foto dei posti dove gli sticker e poi i manifesti erano stati attaccati. Più si ampliava il fenomeno, meno persone sapevano veramente chi fosse the Giant, ma questa incertezza faceva appunto parte dell’idea di Fairey: per gli skater André era una marca di tavole o di abbigliamento; per i punk un gruppo musicale mentre per un pubblico più conservatore o lontano dai fenomeni giovanili era un personaggio di culto, magari il capo di una pericolosa gang.
Si raggiungeva così uno strano equilibrio contraddittorio fra massima diffusione del messaggio e massimo accrescimento del mistero.
Ecco ribaltato lo scopo del manifesto pubblicitario. Se il prodotto promosso non è ovvio, il risultato, dal punto di vista del marketing è un fallimento, ma dal punto di vista di Fairey è il raggiungimento dell’obiettivo di spingere chi guarda alla riflessione.
Dunque Fairey è riuscito a entrare nel mondo dell’arte come un virus: se l’art system è sempre alla ricerca della trovata (gli squali in formalina di Damien Hirst, i bambini impiccati all’albero di Maurizio Cattelan, gli animali vivi di Paola Pivi, le teste realizzate con il proprio sangue da Marc Quinn), della novità che tenga vivo lo stupore e lo sostituisca con un’emozione sempre più grande, un sistema perverso in cui l’ultima notizia declassa subito la penultima, Fairey vi immette il virus della ripetitività e della banalità. Lo stencil come forma estrema di protesta creativa. Esattamente la stessa operazione, al contrario, di quella fatta da Duchamp all’inizio del Novecento. Fino all’Ottocento l’uniformità del gusto era chiamata accademia, poi gli Impressionisti tentarono di ribaltare il sistema dei Salon parigini, l’Art Basel di allora, ma chi rovesciò veramente il sistema furono i dadaisti. Duchamp prese un orinatoio, lo firmò e disse che quello era “Fontana”, la sua opera d’arte.
Oggi la sfida di Fairey è spiazzare con la normalità. Contro le continue trovate delle avanguardie, Fairey torna all’accademismo scolastico dello stencil e al realismo retorico da estetica comunista perché la cosiddetta avanguardia, fino a metà del secolo scorso segno di ribellione, funziona oggi al contrario come strumento di inserimento sociale e culturale.
Chissà se il nostro Shepard Fairey conosce gli scritti di Régis Debray dove si dice che “la sola parola d’ordine rivoluzionaria è diventata: bisogna essere risolutamente a-moderni”. Artisti, svegliatevi! Il tempo è maturo per un nuovo dadaismo.